Paul Schrader: The Canyons

The Canyons

 (Usa 2013, 104 min., col., thriller)

A quanto pare The Canyons, il nuovo film di Paul Schrader, o si ama o si odia. Se si resta in superficie, si corre il rischio di odiarlo, mentre se ci si sprofonda al suo interno, per mezzo di una riflessione sui media, si corre il rischio di amarlo.

Odiamolo

Allora odiamolo, ma solo per pochi istanti, accennando alla sua trama. A Los Angeles, cinque persone s’incontrano casualmente durante la produzione di un film. In un gioco d’inganni, amori, violenza e crudeltà, i cinque risulteranno indissolubilmente legati.

Della storia si può dire tutto quello che si vuole, tutti i riflussi bilici sono ben accetti e gli aggettivi negativi non devono essere risparmiati. Si legge d’altronde di tutto sul web: noioso, presuntuoso, televisivo, imbarazzante e via dicendo. Falso? Assolutamente no.  Solita storia d’intrecci, intrighi amorosi che si dilungano in una spirale scontata: sesso, gelosia, tragedia. James Deen, fuoriuscito dal porno, è impassibile come una statua: fa sesso con la medesima espressione di quando guida o discute con i colleghi. Linsday Lohan è tutto fuorché presentabile e gli altri sembrano usciti da una pubblicità per omogenizzati. Esteticamente, il film di Schrader è amatoriale. Aborti di piani sequenza, inquadrature grossolane, movimenti di macchina spicci e tremolanti si susseguono senza avere un senso preciso, mentre la luce naturale brucerebbe qualsiasi pellicola. Eppure…

Amiamolo

Eppure il film di Schrader lascia il segno. Com’è dunque possibile che un regista realizzi una storia così blanda (non dimentichiamo il suo passato da sceneggiatore al fianco di Martin Scorsese, di Brian De Palma, nonché di Peter Weir con Mosquito Coast) in compagnia di Bret Easton Ellis (non un pivellino insomma) ? Non è possibile. Meglio: è possibile, se si hanno altri scopi. Questa è la direzione giusta per comprendere e apprezzare il film di Paul Schrader.

Qual è lo scopo di Paul Schrader? Analizzare la società e il presente. Qual è il mezzo per arrivare a  tale fine ? La narrazione blanda con personaggi noiosi e monotematici. Come Sofia Coppola con The Bling Ring? Certo, ma con delle differenze qualitative e quantitative. Come Harmony Corine con Spring Breakers? Esatto. Per assurdo, il film è ancora piu’ profondo di questi e si avvicina, almeno per la tematica se non per gli intenti, a Holy Motors, ossia alla morte del cinema.

Chiarifichiamo il tutto. The Canyons è apparentemente superficiale e inutile ma questa maschera è un inganno voluto. Il regista fa indossare questa maschera sul suo film volutamente, per dirci qualcosa.

Per prima cosa Paul Schrader annuncia la morte delle storie cinematografiche. Niente di nuovo, si dirà, poiché The Bling Ringaffronta in qualche modo la medesima situazione. La differenza con The Canyons risiede, però, nell’intensità di questo denudamento narrativo : il primo, mi scuso per il gioco di parole, si ferma alla superficie della « superficialità », mentre il secondo propone un’apertura al dibattito: le sequenza iniziale, si vedrà, dice già tutto, cosi come le immagini di vari cinema decaduti e in rovina. Già Spring Breakers si apriva  a una riflessione e a un senso delle immagini che esprimevano qualcosa in più della superficie del film della Coppola (si pensi alla danza delle ragazzine in passamontagna e costume), anche se l’analisi rasentava l’ironia. Nel film di Schrader c’è poco da ridere e molto da analizzare (il regista, guarda caso è anche un noto critico cinematografico).

 

In secondo luogo, ma è legato al primo punto, l’analisi proposta dal regista è anche sociale. Schrader nota, come giustamente anche la Coppola e Korine, la difficoltà sociale della contemporaneità. Meglio, seppure in maniera differente (non ci stanchiamo di ripetere che The Bling Ringnon ci è piaciuto, mentre Spring Breakerssi), essi notano un cambiamento nella nostra società, forse a causa della crisi, forse di Internet, forse dell’educazione e chi più ne ha più ne metta. Anche in questo punto la parola cardine è « superficialità ». La gente, sembra dirci Schreder, ha aumentato il numero di filtri, di maschere, fra loro e la società. I contatti umani sono filtrati (i social networks), la verità anche e le menzogne regnano senza opposizioni (guarda caso il film parla proprio d’individui che mentono a ripetizione). La prima scena del film, ossia la cena fra i protagonisti è emblematica : la comunicazione è un mero aborto, mediata da incomprensioni, cellulari e aggressioni verbali ; si pensa di conoscere l’altro, ma invece non si va al di là del proprio ego.

E qui si arriva al terzo punto. Il filtro non è altro che una mediazione. C’è qualcosa che media visivamente fra i soggetti e la realtà in maniera esponenziale: cellulari, computer, internet, tablet e l’elenco è ancora infinito. Questa moltitudine di filtri visivi si abbatte sul cinema e Schrader ne è consapevole e lo mostra. Il cinema come lo s’intendeva fino a qualche decennio fa è morto e viene mostrato allo spettatore in più maniere : le piccole sale cinematografiche sono delle carcasse abbandonate alle intemperie ; i protagonisti lavorano nel cinema, ma non si vede nulla di cinematografico e nessuno sa nulla del tema ; la produzione è blanda e sciatta, destinata a guadagnare più soldi possibili ; si fa cinema con tutti i mezzi : il personaggio di James Deen fa sesso filmando e filmandosi. Oltre che la morte delle storie, la morte del cinema è anche il decesso dell’attore, mentre in Holy Motors di Carax il trapasso della settima arte non era la morte di ogni tipo attoriale (« Je continue comme j’ai commencé, pour la beauté du geste », dice l’attore che interpreta i vari personaggi).

 

Ci si avvicina alla conclusione. Al momento di tirare le somme, dunque, il pessimismo sembra regnare sovrano. In un bilancio di fine anno dei film visti, molti registi segnalano la morte del cinema che va dalle storie agli attori, passando dal suo supporto alla sua estetica. Allora? Se la narrazione quest’anno è andata a farsi benedire, possiamo effettivamente parlare di « trapasso cinematografico » definitivo. Stando all’articolo di Roberto Tallarita L’apocalisse stilosa. La morte delle storie in The Canyons e Bling Ring non è cosi :

“L’esperienza di ogni generazione che viene dopo è così diversa da quella della precedente che ci sarà sempre gente a cui sembrerà che il legame coi valori fondamentali del passato è andato perduto. Finché durerà la modernità, tutti i giorni saranno per qualcuno gli ultimi giorni dell’umanità”.

Qui risiede il relativismo. Qualcuno vede nell’attualità la fine delle storie (Schreder), altri vedono un nuovo inizio (penso a Gomes) o un suo embrione (Carax). Non c’è qualcuno che ha ragione o meno, come invece sostiene l’autore dell’articolo.

 

“E forse saranno i coetanei dei componenti del Bling Ring a reinventare le storie perdute fuori dalle rovine cinematografiche di Schrader e a creare senso dagli schermi luminosi della tecnomodernità. Qualcuno ci sta già provando. Ditelo a Paul Schrader”.

Penso che Schrader già lo sappia, ma lui vede il cinema in questo modo. E’ un peccato? Nient’affatto. Sono apprezzabili i suoi pessimismi come i tentativi di ricostruzione di Gomes. Sono sfaccettature della nostra contemporaneità, dove ognuno, per riprendere il filosofo Karl Kraus, vede l’apocalisse soggettiva quando e dove vuole. Beata sia la moltitudine.

Non si è di fronte alla morte del cinema, ma alla sua morte, alla sua nascita, alla sua crescita e cosi via. Episodi che si succedono ogni anno, da cent’anni a questa parte.

Mattia Giannone
  • http://www.blogger.com/profile/09993226958393520486 Marco Goi

    come vorrei che avessi ragione.
    io, da adoratore di ellis, l’ho trovato una semplice replica delle sue tematiche, trattate però questa volta senza il suo solito mordente. e pure schrader sembra alle prese con una versione stanca di american gigolo.
    spring breakers, bling ring e holy motors per me sono fatti di un’altra pasta…

  • http://www.blogger.com/profile/11347254217489974262 Stefano

    A Venezia è stato fischiato, canzonato, massacrato. Sai già che non mi è piaciuto: ma ho colto che si tratta di un film dannatamente serio. In modo molto “paraculo”, allora, non mi sono sbilanciato.

    Carax parla della stessa cosa, e lì il concetto lo afferro, eccome se lo afferro, ma istintivamente, senza troppi ragionamenti (su tutti: “ma è brutto perchè è voluto apposta?”). Ragionamenti che richiedono uno sforzo intellettuale, da circolo culturale. Voglio dire, l’idea della morte del cinema è forte, ma non si giustifica un film fatto male apposta. Il che non dico che è brutto o sbagliato, ma non fa per me.

  • http://www.blogger.com/profile/13267355458580221545 Mattia

    Capisco cosa vuoi dire e infatti ti dico che le storie di Holy Motors e Spring Breakers sono molto ma molto superiori (non quella di Bling Ring). Ma il concetto che si vuole esprimere è il medesimo. Poi è ovvio: la questione “se il fine giustifica i mezzi” tocca la sensibilità di ciascuno.

  • http://www.blogger.com/profile/13267355458580221545 Mattia

    Sai che mi piacciono i trip intellettuali… ahahah.

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