Jim Jarmusch: Paterson


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JIM JARMUSCH

PATERSON

(USA 2016, min. 113, col., drammatico )

 

Tutti lo volevano, ora lo hanno, tutti lo amano e tutti lo osannano. I Cineuforici ne sono delusi. Paterson del grande regista Jim Jarmusch, ti lascia lì ai titoli di coda con un profondo e sincero: “Mah…”. Non si osa dire nulla, perché “Jim Jarmusch è Jim Jarmusch, e che cavolo”. Vuol dire che non si è capito tutto, poiché tutti, ma proprio tutti, lo acclamano come una delle migliori pellicole del regista newyorkese. Poi spulci qua e là la grande tela dell’informazione e trovi quegli scricchiolii, quelle dissonanze e qualcuno che conferma i tuoi dubbi.

Siamo un po’ cattivi, un po’ cinici e un po’ cineuforici, ma finalmente possiamo dire: se Paterson fosse stato realizzato da un regista sconosciuto, a quest’ora nessuno ne parlerebbe. “Esagerato!” diranno alcuni, “la storia non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’” diranno altri. Aggiungiamo: anzi, forse se ne parlerebbe come la nuova perla del Sundance o come un nuovo film di Noah Baumbach. Ma Paterson è stato realizzato da Jim Jarmusch, diamine. Uno che ha realizzato non più tardi di un paio d’anni fa Only lovers left alive: la massima interpretazione della crisi del nuovo millennio.

 

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Jarmusch vuole portare al cinema la poesia di strada. Ok, perfetto: solo lui potrebbe e dovrebbe farlo. Non vuole fare un film su un poeta, ma vuole scrivere una poesia da mostrare allo schermo. Le premesse per un gran film c’erano tutte, soprattutto nelle mani del regista che ha realizzato Dead Man.

La pellicola inizia alla grande, rovistando fra la quotidianità dell’autista Paterson: la strada, la città, le persone sono le solite, ossia i personaggi di Jarmusch; ogni incontro è una chicca che arricchisce la poesia del regista e i dialoghi sono a tratti indimenticabili. Il migliore però, e spiace dirlo (ho il cuore a pezzi), è nel trailer.

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Ben presto ci si accorge che Jarmusch sta girando a vuoto. Perché? La scelta catastrofica degli attori. Adam Driver non incarna l’individuo jarmusciano. Il malessere che esprime, non deriva dal suo personaggio, ma dalla sua incompatibilità col ruolo. Non è un disagio narrativo, ma è un vero e proprio imbarazzo nella recitazione. Fastidiosissima l’interpretazione di Golshifteh Farahani, così come il suo personaggio che incarna l’essenza del film indie da Sundance e non il succo del cinema underground di Jarmusch. Mi si dirà che Broken Flowers stava sulla stessa linea di Paterson. Lì, almeno, si ritrovava una certa ironia e un Bill Murray in stato di grazia che si prendeva gioco di quello che, ormai diventato un genere, è attualmente un certo tipo di cinema americano.

Incredibili poi, per un regista come Jarmusch, gli attimi d’ispirazione del protagonista Paterson: davanti a una cascata con le poesie che compaiono scritte allo schermo e una serie di sovrapposizioni d’immagini. Le manie della moglie di Paterson, l’auto ironia sul bianco e nero e il bulldog fanno il resto. “Sicuramente non abbiamo capito il senso, ci deve essere qualcosa dietro” ci dicevamo.

Niente da fare, nonostante tutti gli sforzi, non lo abbiamo trovato.

Mattia Giannone