Edgar Reitz: Die Andere Heimat – Chronik Einer Sehnsucht


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EDGAR REITZ

 

DIE ANDERE HEIMAT

CHRONIK EINER SEHNSUCHT

 

(Ger. 2013, 230 min., B/N e col., drammatico)

 

Dopo la trilogia di Heimat, Reitz torna a raccontare della sua Germania in un unico episodio ottocentesco. Il regista chiude il cerchio intorno alla sua nazione, mostrandone l’origine. Da dove sono nati i tre Heimat novecenteschi? Da una madre che andava presentata per ultima: Die Andere Heimat – Chronik Einer Sehnsucht. I tre figli non sono nulla, senza la loro progenitrice.

L’attualità ottocentesca

La ruota gira per tutti. Il migrante in un’epoca è il ricevente in un’altra. Reitz pone la società tedesca davanti a ciò che ha dimenticato: una volta fu in difficoltà come lo sono alcune nazioni oggi. L’uomo è in moto perpetuo, in un equilibrio di forze che si ridistribuiscono nel mondo: i tedeschi vanno in Brasile, i brasiliani vanno in Europa, i portoghesi si recano in Germania e così via (lo stesso vale per l’Italia e gli italiani). Il sogno non è, allora, quello del tedesco in particolare, ma è il sogno di tutti e di coloro che fuggono per trovare, che lasciano per prendere del nuovo con la speranza di abbandonare la miseria. Immigrazione ed emigrazione sono due superfici di una medesima sostanza.

Cronaca di un sogno

Dal generale si passi al particolare. Reitz trova il minimo comune denominatore fra il pragmatismo e l’immaginazione nell’altra patria,

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quella brasiliana. Tutti vogliono andare in Brasile e tutti ci vanno, ma in maniera differente: Gustav e Jakob rappresentano i due poli. Se entrambi sognano la foresta amazzonica, il primo metterà fisicamente il piede su quella terra mentre il secondo immaginerà di metterlo. Poiché frutto di un sogno, uno dei due risultati non è migliore dell’altro. È il sognare stesso che è motore e scopo della vicenda di Die Andere Heimat – Chronik Einer Sehnsucht. Non è un caso che il contenuto del fantasticare, l’agognato Brasile, non sia mai mostrato sia per quanto riguarda Gustav sia per Jakob. Sappiamo che il primo è arrivato nelle terre d’oltre oceano solo tramite una lettera inviata alla famiglia. A Edgar Reitz interessa il desiderio brasiliano, non il Brasile stesso. Non gli interessa mostrare il nuovo terreno di Gustav, ma la sua partenza, l’addio alla patria e alla famiglia. Non presenta allo spettatore patetiche digressioni su come Jakob immagina l’altra patria, bensì lo propone intento a sognare, a immaginare e, il che è lo stesso, a creare. Sostenere che sognare è creare parrebbe scontato ma Reitz fa notare come l’abitudine crea dimenticanza. Jakob, allora, crea il suo Brasile così come Gustav creerà, con le sue mani e con il sudore della fronte, l’altra patria.

La natura, il linguaggio e la narrazione

È il Brasile di Jakob quello che interessa maggiormente Reitz. La creazione del sogno è fatta con l’esperienza. Ma quale, visto che il protagonista non ha mai visto la terra d’oltreoceano? Sono i libri che legge di nascosto, le sue fughe nella natura o il suo apprendistato linguistico d’autodidatta a permettere la creazione del sogno carioca. Jakob rifugge dal lavoro dei campi o dalla bottega del padre per viaggiare con la mente. S’immerge nei libri, nelle foreste tedesche e nelle illustrazioni.


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Non è un caso che l’apertura di Die Andere Heimat – Chronik Einer Sehnsucht sia un piano sequenza sulla piazza di Schabbach, con la macchina da presa alla ricerca della narrazione udibile allo spettatore che pare in bilico fra il fuori campo e il fuori quadro, fino a quando non la scorge nel libro lanciato nel cortile dal padre di Jakob. Quello che si sentiva era il protagonista che leggeva in disparte; la cinepresa ammaliata dalla lettura era partita alla ricerca della fonte e, finalmente trovata, s’interrompe sul primo piano del libro. Tale inquadratura è fondamentale: Reitz decide di non seguire il padre che butta fuori di casa il figlio scansafatiche, ma il volume precedentemente lanciato. Da qui l’importanza nel film data alla parola e al linguaggio. Jakob studia d’autodidatta la lingua dei popoli dell’America meridionale e le ripete a voce alta tentando di coglierne le sottigliezze, le sfumature e la sua sonorità. Essa diventa la porta d’accesso per il mondo sognato da Jakob, condiviso solo in parte con la sua amata Henriette: gli idiomi amerindi, non compresi in Germania, diventano espressione dell’intimità fra i due.

Allontanandosi dalla civiltà e rifugiandosi nei boschi, Jakob si allontana dalla Germania e si rifugia nel suo Brasile: lussureggiante, verde e mitico. Il sogno del protagonista è dunque caratterizzato dalla natura, dalla cultura linguistica (e non solo) degli indigeni e dall’immaginazione. Chi potrebbe incarnare questo trittico verdeggiante se non il regista Werner Herzog? Ciò che parrebbe un’esagerazione, non è solo giustificato dal reale cammeo del regista tedesco in Die Andere Heimat – Chronik Einer Sehnsucht nel ruolo di un naturalista viaggiatore, ma anche dai temi della sua filmografia: alterità, natura, immaginazione. Sono gli stessi che Jakob rincorre e agguanta nel corso delle sue giornate, lasciando da parte il lavoro con il padre. Egli non è però il ritratto di Herzog; fugge davanti a un possibile incontro o uno scambio di vedute naturalistiche. Il regista bavarese viaggia e ha viaggiato anche fisicamente, cosa che Jakob non ha ancora fatto. Nonostante desideri “l’altra patria”, quest’ultimo è ancora ancorato alla “patria” come Edgar Reitz. È allora interessante l’altro cammeo di Die Andere Heimat – Chronik Einer Sehnsucht: Reitz compare come paesano indicante la strada a Herzog per Schabbach. Due mondi legati da una profonda amicizia: “l’altra patria” espressa dai viaggi di Herzog e la “patria” espressa dallo studio nazionale di Reitz. Nel mezzo siede Jakob; egli desidera e sogna ciò che è nuovo pur restando accanto alla sua nazione.

 

L’estetica: arte e sensazioni

Edgar Reitz si rimette in gioco. Dopo il formato televisivo dei primi tre capitoli e l’utilizzo della pellicola, propone nel prologo-madre

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il formato scope e il digitale. Il direttore della fotografia Gernot Roll ha girato alcune sequenze sia in pellicola sia in digitale non riscontrando alcuna differenza qualitativa. A quel punto, si è optato per il digitale che ha permesso in postproduzione l’inserimento del colore in alcuni momenti significativi del film.

Così come gli Inuit hanno molteplici parole per ogni tipologia di neve, Jakob racconta a Henriette come gli amerindi abbiano innumerevoli vocaboli per tutte le sfumature di verde presenti nella foresta. La parola accompagna la visione. Lo spettatore vede il verde comparire sul bianco e nero. Il sogno crea la forma, modifica i colori e rende Die Andere Heimat – Chronik Einer Sehnsucht eccezionale. Se non si vede il contenuto del sogno, si può osservare però il sognare nel reale. Oltre ai movimenti di macchina leggiadri, quasi sul dorso di un uccello, Reitz, infatti, mette in evidenza la creazione dei sogni di ogni personaggio. Il ferro di cavallo ancora caldo si differenzia dal bianco e nero, così come i “verdi” sopra accennati o il blu dei fiordalisi, con lo scopo di segnare il passo, d’intensificare le sensazioni di Jakob, di sua madre o di suo padre e così via. Il desiderio, la passione, il sogno e la creazione non sono più, insomma, delle entità astratte, ma sono visivamente “reali” come la realtà stessa. Questo reale estetico, cinematografico, visivo o artificiale, non è il Brasile stesso, ma il suo sogno. Un sogno cromaticamente tangibile.

Mattia