PILLOLE TORINESI: Appunti e critiche del 33TFF

-PILLOLE TORINESI-

Appunti e critiche del 33TFF 


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21 nov. 2015


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REAL ONI GOKKO (Sion Sono)

Sion Sono ci ha abituato a un certo tipo di cinema che amoreggia sempre con il trash e con lo splatter e anche questa volta non delude… nei soli primi dieci minuti. Al di là di questi, infatti, la noia diventa padrona. Il film parte in quarta e la parodia manga è palpabile. Spruzzi di sangue e interiora sono alla mercé di un vento killer non identificato. Si ride. Dopo pochi istanti si capisce che l’andazzo è ben altro: la pellicola si trasforma in un trip videoludico senza capo né coda, con insistenze surreali davvero fastidiose. L’uso eccessivo del drone e di un montaggio da videoclip non aiuta a digerire il tutto. Non si vede l’ora che sia finito.

 


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RAPPORTO CONFIDENZIALE (Orson Wells)

Un classico da vedere e rivedere di Orson Wells, ci permette di rendere omaggio insieme al Torino Film Festival a un grande regista. Peccato per la proiezione dilettantistica: il film è partito in lingua italiana con sottotitoli in italiano (?). L’organizzazione si è accorta del misfatto dieci minuti dopo e ha tentato di rimediare il tutto: catastrofe! Sul grande schermo sono apparsi il menù del dvd e i movimenti del telecomando, suscitando l’ilarità generale. Salvi, il film è ripartito dall’inizio pour bloccandosi qua e là durante la proiezione. Prima di questo episodio, Orson Wells non soffriva di ulcere…

 


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THE FORBIDDEN ROOM (Guy Maddin e Eva Johnson)

Ci si attendeva tanto dalla nuova pellicola di Maddin, forse troppo. Siamo convinti del fatto che l’estetica debba essere la base per il contenuto e non il contenuto stesso. L’impressione di The Forbidden Room è proprio di avere una bella cornice, ma una tela bianca. Non basta il technicolor psichedelico, il fumetto col muto, le didascalie o altri trucchi di decenni ormai passati alla storia se non si ha un pizzico di narrazione. Certo qualcosa c’è, ma una trama da scatole cinesi farcite di sottomarini alla deriva, briganti in paesaggi innevati e vulcani con problemi digestivi non sono sufficienti. Grandissimo trip per gli occhi.

 

22 nov. 2015


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GOD BLESS THE CHILD (Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck)

A metà fra documentario e finzione, God Bless the Child porta sotto i riflettori, l’istinto infantile in maniera esemplare. I ragazzini, abbandonati da una madre inaffidabile, si lasciano trasportare dalla fantasia e dalla sopravvivenza. La pellicola, seppur studiata in molte parti, possiede quell’aurea di freschezza di cui sono private molte pellicole sull’infanzia. Ottima la fotografia.

 

 


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CEMETERY OF SPLENDOUR (Apichatpong Weerasethakul)

Non conoscendo appieno la cultura thailandese, uno spettatore medio non può fare altre che osservare le splendide immagini di Apichatpong e lasciarsi trasportare dal suo simbolismo sconfinato. La veglia e il sonno, vite presenti e vite passate, reincarnazione e comunicazione sono i cardini dell’estetica e della narrazione del regista thailandese. In Cemetery of Splendour sono ricercati (e poi mostrati) i ponti e i legami fra il visto e il non visto. Necessaria una seconda visione.

 


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HONG KONG TRILOGY: PRESCHOOLED PREOCCUPIED PREPOSTEROUS (Christopher Doyle)

Direttore della fotografia di Wong Kar-Way e di Jim Jarmusch, Doyle si concentra sulla città in cui abita e che adora: Hong Kong. Lasciando parlare i bambini, i giovani e gli anziani, il regista sfaccetta i punti di vista sulla città mostrando i diversi spaccati. Sull’orlo dell’astratto, il documentario manca di ritmo in alcune parti e lascia lo spettatore in un torpore in apparenza senza speranza. In “apparenza” perché il film procede fra altri e bassi, andando al di là dei soliti canoni del reportage.

 


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NACIMENTO (Martin Mejìa Rugeles)

Il tempo sembra essersi fermato nella giungla colombiana. Tutto verte nell’attesa della nascita, ripresa e mostrata senza veli. Gli alberi, l’erba, gli animali, le persone e la comunità, ma soprattutto le acque, sembrano sospesi in attesa dell’evento. Chiari i rimandi a Herzog e a un cinema dell’attesa (il regista, durante il Q and A, fa riferimento anche a Bela Tarr). Gran film (piccola curiosità: il film è girato in 16mm).

 

 


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SYMPTOMA (Angelos Frantzis)

Frantzis ha visto troppi film di Lynch (il coniglio su tutti). A parte gli scherzi, i richiami sono fin troppo evidenti e rischiano affossare un film che possiede le carte in regola per angosciare lo spettatore. Oltre al taglio lynciano, è importante rilevare fra le righe i rimandi a un altro elemento: la Grecia antica e arcaica. Se, infatti, la pellicola di Frantzis richiama dapprincipio i soggetti dell’inconscio, del sogno e della colpa, soggiace in essa una profonda radice ellenica. Numerosi i rimandi alla tragedia, al teatro in generale, a Platone (il banchetto familiare, ricorda molto il Simposio) e alle divinità. Insomma, Symptoma è, appunto, sintomo di qualcosa di più profondo e angosciante che risiede in tutti noi.

 

23 nov 2015


THE LADY IN THE VAN

THE LADY IN THE VAN (Nicholas Hytner)

Dopo i film intensi del giorno precedente, avevo bisogno di una tregua e, The Lady in the Van me l’ha concessa. Commedia molto british, simpatica e leggera che mi ha permesso di sorridere più di una volta e che si appoggia tutta sulla bravura attoriale della ormai celebre Maggie Smith. La pellicola è tratta dal libro autobiografico e dalla commedia di Alan Bennett, che qui compare in veste di sceneggiatore.

 

 


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SOPHELIKOPTERN (Jonas Selberg Augustsén)

Una nonna rivuole il suo orologio. La nipote decide di riportarglielo guidando per mille chilometri dal nord al sud della Svezia con due amici. Simpatico road movie, anche se registicamente ancora un po’ acerbo e con alcuni tentativi estetici “messi lì” solo per piacere. L’umorismo è di quelli che ci piace, nordico, freddo e surreale. Alcune trovate sono geniali e rimandano sia a Kaurismaki sia a Jarmusch sia al conterraneo Andersson.

 

 


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UNDER ELECTRIC CLOUDS (Alexey German Jr.)

Possiamo dirlo? Si dai, diciamolo: capolavoro! Alexey German Jr, apre in due la Russia e l’analizza. Non con fare scientifico: si è di fronte ad un’analisi estetica della Russia. Un procedimento che gli permette di andare oltre lo spazio e il tempo, mostrando al pubblico una regione in bilico fra presente, passato e futuro. Una nazione malinconica che volteggia in un limbo atemporale e che disarma lo spettatore. Fotografia strabiliante, per un film d’antologia. Il migliore della rassegna torinese.

 


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EVOLUTION (Lucile Hadzihailovic)

Dopo aver visto Evolution, l’angoscia ti assale e non ti molla per un paio d’ore. Film allucinante, allucinatorio e surreale che trascende la razionalità umana. Se cerchi coerenza scientifica, sei spacciato, ma se cerchi una coerenza poetica ed estetica, ne rimani affascinato. Un’isola di sole madri e figli maschi, stelle marine, feti. Qui la teoria evoluzionistica è mandata a gambe all’aria.

 

 


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HIGH-RISE (Ben Wheatley)

Irriverente, spiritoso e nel frattempo profondamente critico, High-Rise è il classico film che ami o che odi. Noi lo abbiamo amato (adoriamo questo genere di film). Si tratta dell’adattamento cinematografico di Condominio (James G. Ballard). Non si tratta della solita lotta di classe (i ricchi del condominio abitano nei piani alti e i poveri, evidentemente, in quelli bassi). La critica sociale non è limitata alle differenze fra operai e borghesi. La lotta è intestina alla medesima classe, fra le differenze di personalità, di gusti e di modi di vivere differenti. La degenerazione è dietro l’angolo, Wheatley la scova e osa mostrarla sullo schermo.

 

24 nov. 2015


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SOPLADORA DE HOJAS (Alejandro Iglesias)

Questo film messicano è una vera sorpresa. La trama non lasciava presagire nulla di buono. “Lucas, Emilio e Ruben sono tre adolescenti goffi, amici per la pelle, riuniti in una missione impossibile: ritrovare le chiavi che uno di loro ha perso nel parco, tra un mucchio di foglie secche, prima di andare a una cerimonia funebre”. Eppure… Sopladora de hojas ha una sceneggiatura ben costruita, articolata, ben ritmata e soprattutto divertente. Quasi una commedia teatrale, la pellicola verte intorno alle chiavi e, nella sua orbita, incontra le chiacchere dei giovani che divagano, senza mai annoiare lo spettatore.

 


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STINKING HEAVEN (Nathan Silver)

Si esce da questo film e si ha voglia di drogarsi. A parte gli scherzi, i settanta minuti del lavoro di Nathan Silver sono parsi un’eternità. L’idea di base risiede nel filmare una comunità di recupero autogestita degli anni novanta e i suoi fragili equilibri. L’idea di riprendere questi giovani con videocamere dell’epoca, non salva una pellicola priva di vero interesse e che tenta di riprendere autori come Von Trier e Clark, in maniera grossolana.

 

 


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LONDON ROAD (Rufus Norris)

Poliziesco-musical; detto questo e si detto tutto. No, sbagliamo. Magari fosse un poliziesco-musical; si tratta invece di un musical che segue la condanna del colpevole e del successivo clima di paura nel quartiere in cui il crimine ha avuto luogo. Da dimenticare il più velocemente possibile.

 

 


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THE DEVIL’S CANDY (Sean Byrne)

Altro film da incubo: letteralmente e cinematograficamente. Bastano gli ingredienti: pittore metallaro, presenze demoniache e uomo sbalestrato. Spoiler: quest’ultimo è ucciso a colpi di chitarra. Si è detto tutto.

 

 

 


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THE ASSASSIN (Hou Hsiao-Hsien)

Vi dobbiamo confessare una cosa: siamo rimasti sorpresi. Per fare i cinefili di turno dovremmo dire: “Capolavoro assoluto”. In realtà abbiamo (e abbiate, per carità) l’onestà di dire: “Ma la trama?”. Una seconda visione è necessaria, ma non essendoci stata il nostro giudizio è in stand by; in pausa perché il film di Hou Hsiao-Hsien è al di là di tutti i canoni cinematografici del genere “cappa e spada orientale”, sorprende per la magnifica fotografia e per le riprese spiazzanti. Da rivedere.

 

Mattia Giannone