Davide Manuli: La leggenda di Kaspar Hauser

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DAVIDE MANULI

LA LEGGENDA DI KASPAR HAUSER

(Italia 2012, 87 min., B/N, drammatico?)

Dopo Beket, Davide Manuli prosegue nella sua personalissima ricerca nei meandri delle contraddizioni contemporanee. La leggenda di Kaspar Hauser fa un balzo in avanti, quasi consapevole di stare martellando un ferro già caldo. Rigirando il coltello nella piaga, il regista smantella il cuore dei generi, delle etichette e mette a nudo la povertà culturale attuale, mantenendo una crosta ridotta all’osso. Il bianco e nero di Tarek Ben Abdallah, il deserto della Gallura, la recitazione volutamente teatrale dei personaggi, la musica di Vitalic fanno poi magistralmente il resto.

Il legame che lega Manuli a Herzog è evidente. Al di là dell’interesse particolare per la storia di Kaspar Hauser, ciò che affascina i

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due registi, così simili così diversi, è la meraviglia verso la natura umana. Se in Herzog, però, essa è ripresa in un discorso intorno a personaggi fuori dal mondo, in Manuli l’eccezione è proiettata nel mondo. In questo modo Kaspar Hauser è, come in Beket, un’analisi sul contemporaneo. In un’intervista (artribune.com) Manuli, infatti, sostiene:

“Per me è chiara una cosa: noi tutti viviamo 360 giorni l’anno nel non-sense, 24 ore al giorno. Non un minuto escluso. La società è totalmente non credibile e fuori controllo. Quindi, non si tratta di una scelta: indagare il non-sense in cui viviamo è, piuttosto, un obbligo. Parlare di non-sense oramai equivale a parlare del sociale quotidiano. Viviamo tutti nel grande nulla delirante.”

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In questo “grande nulla delirante” capita Kaspar Hauser. Venuto dal mare e accolto dallo sceriffo dj, dovrà difendersi dall’invidia della Duchessa e sopravvivere al mondo. È necessario indicare chi è Kaspar Hauser con “un’etichetta” sul suo corpo, ossia additare lo straniero, averne paura e non conoscerlo. Della sua precedente opera, Beket, Manuli mantiene l’idea di non-luogo, di non-tempo e di non-persona, modellando come se fossero cera alcuni stilemi della cinematografia. Western, fantascienza, medioevo, cavalli, pistole, buoni, cattivi, ufo sono sì riconoscibili dallo spettatore, ma perdono il loro significato per assumerne un altro. La crosta, si diceva, è identificabile, ma la sostanza cambia. Il risultato è straniante, sospeso nel limbo dell’incredulità e dello spaesamento, ma paradossalmente ben chiaro. Insomma, non si tratta di un mero ludo estetico, ma di una ricerca portatrice di messaggio.

Il messaggio è quello di Beket: la risposta non c’è, inutile cercarla. Se Godot là non

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si trovava, Kaspar Hauser qui non si comprende. Chi è? Da dove viene? Perché? Sono le domande della Duchessa, del pusher, del prete, ma anche di Jaja e Freak (nel precedente Beket). In questo medioevo futuristico e desertico Manuli lancia la sfida: a inizio film Vincent Gallo balla di spalle a ritmo dei Vitalic, mentre degli ufo lo superano. Pugno nello stomaco allo spettatore. Lo steso pugno del pugile in Beket. La sfida è lanciata: si avvisa lo spettatore che quello che vedrà sarà fuori dal comune. L’immedesimazione è bandita: il fruitore deve sapere che l’oggetto della sua visione è una messa in scena con didascalie e tanto di “giraffa” in campo. La leggenda di Kaspar Hauser è la nostra società ridotta all’osso, questo “grande nulla delirante”.

Mattia Giannone