Davide Manuli: Beket

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DAVIDE MANULI

BEKET

(Italia 2008, 80 min., B/N e col., drammatico)

Il titolo è storpiato, ma non lo è la sostanza, la persona, l’autore. Beckett non muore con Beket, ma in esso continua a vivere eternamente, ripetendosi all’infinito come i suoi personaggi, le scenografie spoglie, il contenuto, i dialoghi delle sue pièces.

Jaja e Freak, novelli Vladimiro ed Estragone, decidono di rompere il cerchio creato da Beckett in En attendant Godot: non aspettano più Godot, ma vanno a cercarlo. Non si tratta però di una rottura di senso del non-sense beckettiano; si è di fronte a un cerchio più grande. La rottura del primo cerchio, non apre le porte a una via lineare in cui da un inizio si arriva a una fine. Il cerchio di Davide Manuli è un’altra circonferenza, certo più ampia, ma pur sempre infinita e destinata a ripetersi.

Davide Manuli, allora, non stravolge l’opera di Beckett. Egli la riprende per ampliarla, pervenendo comunque allo stesso risultato: Godot non si trova. L’istante, ossia il cerchio, è solamente dilatato, non stravolto. In questa pausa temporale, in questo infinito manuliano, ci sono solo più elementi rispetto a En attendant Godot; non è un “andare oltre Beckett”, ma un omaggio al grande autore e un immergersi nella sua atemporalità.

Realizzato con una pellicola 16 mm in tredici giorni e montato in dieci, Beket è

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dunque un’opera al passo con il lavoro beckettiano. Nel loro viaggio d’ampliamento del cerchio, Jaja e Freak, incontrano personaggi assurdi, bizzarri e improponibili, tutti potenzialmente usciti dai classici dell’autore irlandese. Oltre a Jaja e Freak, ci sono: un Adamo dj con problemi quotidiani dei cavernicoli, un’Eva lesbica, un oracolo fan del karaoke, il mariachi e l’autista ZeroSei. Tutti sono caricature di loro stessi, patetici e fastidiosi come i personaggi di Beckett. Infiniti sono, insomma, i rimandi a L’ultimo nastro di Krapp, Giorni felici, Finale di partita nonché ai media radiotelevisivi che permettono di evidenziare la condizione contemporanea. Una quotidianità non molto distante da quella notata da Beckett in cui l’incomunicabilità fra le persone, qui espressa con dialoghi monchi e ripetitivi, era l’essenza della sua poetica. L’incomprensione umana e l’incapacità all’ascolto, inutile dirlo, sono problematiche che si perpetuano da inizio novecento. Un’eventuale via di fuga sembrava impossibile negli anni cinquanta, ci diceva Beckett, e sembra esserlo anche oggi, ci dice Manuli.

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Oltre all’incomunicabilità e al tempo, Davide Manuli riprende da Samuel Beckett la questione dello spazio. Non è il tempo, infatti, l’unico a essersi fermato, causando il suddetto cortocircuito atemporale in cui nulla avanza. Il mondo è nudo, vuoto e il nulla avvolge Jaja e Freak, come nudo è il palco nelle opere di Beckett. Questo smarrimento sensoriale non solo rinvigorisce visivamente la sensazione dell’atemporalità, ma priva l’uomo dei propri sensi e quindi di vivere (si pensi a Hamm e Clov in Finale di partita). Se la nudità spaziale rende il palcoscenico dell’autore irlandese, altrettanto si può dire della Sardegna di Manuli. La regione è esplorata in lungo e in largo e ricorda le descrizioni che Clov fa del mondo esterno in Finale di partita. Il bianco e nero, la musica elettronica e le brevissime ellissi fanno il resto: il nostro mondo è angosciante.

Mattia Giannone