Pablo Larraín: Neruda


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PABLO LARRAÍN

NERUDA

(Cile 2016, 137 min., col., drammatico)

La vita è narrazione e, poiché tale, merita d’essere vissuta fino alla fine. Personaggi di un romanzo poliziesco, l’investigatore e il poeta-senatore lottano per un ruolo da protagonista. Pablo Larraín non gioca con le parole come il poeta Neruda, ma con le immagini che creano la narrazione.

Il regista, dopo No – I colori dell’arcobaleno e El Club, s’inserisce appieno nella tendenza di questo decennio: narrare il narrabile, uscendo dai canoni della narrazione. Una tendenza che non si risolve in un mero ludo dialettico ed estetico; essa ha ragion d’essere in un’epoca cinematografica ancora alla ricerca, a nostro avviso, di una nuova via. Registi come Miguel Gomes, Maren Ade e Pablo Larraín, fanno della ricerca il loro scopo cinematografico; altri si occuperanno della “via” in questione.

Come si accennava, Larraín in Neruda: narra il narrabile uscendo dalla narrazione. Il regista racconta una parte della vita del poeta-

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senatore Pablo Neruda: la sua persecuzione in Cile e la fuga all’estero (la narrazione). È ovvio che, una storia reale di questo tipo (il narrabile), si presti in maniera ottimale a una trasposizione cinematografica. Tale vicenda storica, infatti, potrebbe essere rappresentata nel genere del biopic. Perché no? Gli ingredienti ci sono tutti: poeta politico perseguitato nel suo paese per le sue idee che fugge in barba al pericolo d’essere catturato; moralmente poco ortodosso (frequentava case di piacere nonostante fosse sposato); personalità particolare e soggetta a cambiamenti umorali. Che bel biopic! Pablo Larraín, invece, non vuole narrare una parte della storia di Neruda, ma vuole raccontare di un metodo narrativo della vicenda. Larraín crea un nuovo vaso dalla solita terra, ma non vuole né spiegare quale tipo di terra ha usato, né il vaso che è uscito dalla lavorazione. Egli mostra la creazione, lo stile, la cura della mano che modella la terra: egli racconta dell’estetica della narrazione.

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Se Pablo Neruda, poiché poeta, gioca con le parole, Pablo Larraín gioca con le immagini. Entrambi, dunque, giocano: il poeta è il regista, il regista è poeta. Il cineasta supera i canoni visivi classici cinematografici (oltre evidentemente a una splendida fotografia già nota nei suoi precedenti lavori), separandoli dalla narrazione dialogica: una continuità di discussione è frammentata da inquadrature e scenografie diverse. Per chiarire: quando due persone stanno discutendo, ogni cambio di punto di vista non coincide solo con un’inquadratura diversa, ma anche con un luogo diverso. Larrain mostra al pubblico la struttura cinematografica, com’è anche mostrata a un lettore di poesie.

Già questo di per sé ha un gran valore cinematografico, ma l’autore cileno non si ferma. Quanto detto è inglobato nel duello a distanza fra Neruda e l’investigatore che vuole catturarlo. I due giocano, scrivono man mano la loro storia: un nuovo romanzo poliziesco. Lo sanno benissimo, e possono permettersi gli artifici letterali (e quindi cinematografici) della vicenda. Neruda ama l’investigatore e viceversa. È il suo alter ego, anzi è se stesso. Qui si spiega perché la voce narrante è il pensiero dell’investigatore e non quello di Neruda: sé Larraín è Neruda e Neruda è l’investigatore, allora il regista è anche il poliziotto. Non è più una lotta fra personaggio principale e personaggio secondario, ma punti di vista di uno stesso individuo: Pablo Larraín. Ecco che, allora, i numerosi movimenti di macchina circolari e svolazzanti intorno ai protagonisti sono giustificati: il cineasta esprime se stesso, mostrandosi nei corpi di Neruda e dell’investigatore in maniera onnisciente e onnipresente.

Pablo Larraín, per chi non si fosse ancora reso conto, ha posato una pietra miliare nella storia cinema.

Mattia