Maren Ade: Toni Erdmann


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MAREN ADE

TONI ERDMANN

(Germania 2016, 162 min., col., grottesco)

 

Lo schiaffo cinematografico dell’anno arriva con Toni Erdmann, un’opera mostruosa e gargantuesca. Non c’è stato nulla di più imprevisto, sfacciato, schietto, inattuale e grottesco del lavoro della giovane Maren Ade. Toni Erdmann è diabolicamente potente. Apre in due lo spettatore, lo mette a disagio, lo fa ridere amaramente e lo fa piangere cinicamente. Nulla è qui normale, ma tutto è reale. Non finisce mai. Non ne puoi più. Sei fagocitato e svuotato, ma non vuoi che finisca. Apri una porta e non è mai l’ultima. Sembra di arrivare alla meta, ma c’è sempre e ancora qualcosa da dire. Nulla è qui di troppo, anche se c’è veramente tanto. Dialetticamente infinito, Toni Erdmann non è una sfaccettatura della realtà umana, è la realtà umana stessa; non è una sfaccettatura della società, è la società stessa.

Ines è consulente per un’azienda tedesca e lavora in Romania. Qui riceverà la visita inaspettata di suo padre Winfried. Escluso dalla vita privata di sua figlia, egli non tarderà a inventarsi un personaggio, Toni Erdmann, per tentare di scardinare pubblicamente e privatamente la chiusura di Ines.

Toni Erdmann è un gioco, una farsa di un padre burlone, per esorcizzare il gioco sociale. Come sostengono giustamente i Cahiers

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du Cinéma: “La grande ipotesi del film, è che possiamo trasformare la vita in un terreno di gioco, altro dal gioco sociale” (n. 728, pag. 8, T.d.a.). La figlia finge (quindi gioca) di essere seria. L’obiettivo è per Winfried, quello di ridere con lei. Riesce, come Toni Erdmann, a farla ridere, a salvarla dagli abissi (la serietà d’Ines, non è altro che una maschera di un malessere sociale)? No. E qui arriva la prima botta. Toni Erdmann non è, infatti, un film dalla narrazione facile. Appena si delinea uno scampolo di trama, lo spettatore prevede il finale riconciliante e passe-partout. Invece, Winfried fallisce come padre (la prima volta che arriva a Bucarest), fallisce con la parrucca e i denti prominenti di Toni (secondo tentativo dopo la finta partenza da Bucarest) e ritorna sotto le sembianze di un Kukeri, un costume tradizionale bulgaro. Il finale non è facile da prevedere come sembra.

Qual è il ruolo d’Ines? Normalmente, e anche qui Toni Erdmann si mostra come un film che è tutto tranne un feel good movie, non dovrebbe stare al gioco; dovrebbe odiare un padre che diventa sempre più asfissiante, scomodo e onnipresente sia al lavoro sia nella vita privata. Invece è un mescolarsi di accordi e disaccordi, di rapporti padre e figlia. Ines vorrebbe a volte distruggere Toni, mentre altre volte rimanere nel suo gioco di fronte a se stessa e alla società. I due si rincorrono, si separano, si ritrovano e si odiano di nuovo, in un’odissea sentimentale che quando sembra terminare rialza la posta in gioco. Per tale ragione la fine non finisce, si rilancia di nuovo.


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Toni Erdmann non è solo un film sul rapporto della coppia padre e figlia, ma anche un film sulla società. Ines lavora come consulente per una ditta che vuole snellire il personale in Romania, ma non riesce a rispondersi alla domanda: cos’è il lavoro? Finge di trovarsi a suo agio là dove l’azienda ha delle gerarchie, soffrendo invece laddove deve accompagnare la sposa di un ospite a fare la spesa in un centro commerciale. L’ambiente è machista, volgare e spietato. Il neoliberismo rumeno si contrappone all’effettiva realtà: ai piedi del palazzo, dove lavora Ines, le persone fanno la fame. La satira è fortissima, ma non evidente. Non è un film che accusa la società, ma è un film sul gioco sociale e in società. L’assistente Anca, per esempio, passa sì per un’idiota, ma viene dalla sua insicurezza sociale e non dalla situazione narrante: lavora bene, con cura ed è sempre presente; se la camicia di Ines è piena di sangue prima di un meeting, Anca sacrifica la sua con generosità. Maren Ade non prende in giro le persone, espone solo il contesto in cui si muovono. Una situazione che viene a galla con il gioco di Toni Erdmann, il quale non esita a subentrare direttamente nel mondo lavorativo di Ines, spaesando tutti, tutto e divenendo esso stesso machista, volgare e spietato.

Alla fin della fiera il lavoro è un gioco come gli altri: da riconoscere, da giocare, da smontare e rifare (Toni Erdmann sarà vittima del

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proprio gioco – o vittima del gioco di Ines – di fronte all’operaio rumeno). Sorpresa prima, Ines accetta in seguito la sfida creando situazioni più che inverosimili. Il problema, anzi il pregio di Toni Erdmann, è che la regista fa di tutto per rendere verosimile l’intera costruzione filmica, ossia l’inverosimile. Lo spettatore non può crederci, ma lo vuole assolutamente e allora estremizza i suoi sentimenti (ecco spiegato l’ilarità generale nelle sale cinematografiche per certe sequenze; situazione non voluta dalla regista che dice: “So che se ognuno guardasse il film da solo, esso parerebbe molto più triste. Tutto l’umorismo della pellicola si basa sulla disperazione e sul dramma.” – Cahiers du cinéma n. 728, pag. 8, T.d.a).

Allora, noi crediamo all’improbabile sequenza del nacked party, dove l’assurdo diventa verosimile. Ines, non riuscendo a indossare il vestito previsto per la sua festa di compleanno con i colleghi di lavoro, su due piedi improvvisa un nacked party. Un’amica parte, la sua assistente arriva nuda, il capo è sorpreso e va via, ma poi ritorna nudo, e il suo fidanzato, la tratta come una folle. L’ultimo ad arrivare è il Kukeri, quest’essere pelosissimo e altissimo che scaccia i cattivi spiriti nella tradizione bulgara. L’opposto (nudità e pelosità) crea il comico, il pubblico ride. Una risata strana, fuori posto e a disagio, perché Maren Ade è riuscita a far credere che possa essere verosimile.

Come sostengono i Cahiers du cinéma, “bisogna risalire a Holy Motors – altro film-mondo attraversato da un personaggio trasformista – per ritrovare il sentimento di aver visto un film così immenso”.

Mattia