Pablo Larraín: El Club


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PABLO LARRAÍN

EL CLUB

(Cile 2015, 108 min., col., commedia nera)

Quando l’estetica sembra separata dal contenuto, il sospetto che si tratti di un mero ludo stilistico è sempre dietro l’angolo. Pochi riescono a mimetizzare così bene la trappola, come lo fa Larraín. Egli fa abboccare in molti, prendendosi critiche negative, convincendo gli spettatori che le sue scelte estetiche siano fini a loro stesse.

Dopo l’ottimo No – I colori dell’arcobaleno il cileno continua la sua ricerca ironica ed estetica nei confronti della società. Non aggiungiamo l’aggettivo “cilena” a società perché in El club, la critica diventa universale. Se, infatti, in No l’analisi ironica si svolgeva sul doppio filo della fine di Pinochet e sugli sviluppi di un certo tipo di pubblicità nel paese, in quest’ultimo lavoro, l’ironia (e quindi la denuncia) è rivolta al mondo ecclesiastico, se non alla chiesa in generale.

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Pablo Larraín sembra convincerci del fatto, e qui sta la sua ironia, che per liberarsi dal male si può utilizzare un’altra forma di male. In No, per liberarsi di Pinochet, i promotori del referendum utilizzavano una pubblicità che non rispecchiava il mondo reale, ma che dava comunque una speranza al popolo cileno. In El club, il male è incarnato dai peccati dei singoli preti rinchiusi in questa casa “vacanze”, esiliati per espiare le proprie colpe. Quando l’ultimo arrivato decide di togliersi la vita, dopo le accuse di pedofilia da parte di un individuo, la chiesa decide di mandare in questo purgatorio in Terra un prete gesuita per chiarire la faccenda. Colui il quale dovrebbe essere il giusto, ossia la rinnovata chiesa, si ritrova a essere, per finire, sullo stesso piano degli altri. Il male, questa volta, non è superato dal minore dei mali possibili come in No, ma è semplicemente raggiunto da un altro male che, forse, è addirittura peggiore degli altri, ossia il prete gesuita.

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In un fantastico piano sequenza Larraín espone proprio questo concetto. Siamo nella casa dei peccati e dal fondo, la cinepresa si avvicina man mano al tavolo, dove i preti stanno cenando. Si chiacchiera, si discute del più del meno, ma è proprio in questo momento che il gesuita imprime il suo potere sugli abitanti della casa. Egli impone dei cambiamenti nel mangiare e nel loro modo di bere: dà fastidio alle abitudini. L’equilibrio nefasto di Pinochet, si parla di No, è tormentato da una pubblicità, da uno spot elettorale. Qui si è di fronte a due visioni contrastanti della chiesa, una più moderata e una più conservatrice, ma che alla fine hanno le stesse paure. Il male, insomma, è pur sempre male anche se si manifesta in modo diverso.

Ecco, allora, che le scelte estetiche di Larraín assumono connotazioni diverse da quelle emesse da alcuni critici. Non sono fini a loro stesse, ma rientrano perfettamente nel disegno ironico e fattuale del regista cileno. In No girare con una pellicola e una cinepresa degli anni ottanta serviva a ricalcare un certo stile televisivo dell’epoca dei fatti. Qui, la nebulosità grigio-blu della fotografia riprende la mancanza di chiarezza della chiesa e de suoi “non detti”; la scelta di filmare il crepuscolo e l’alba potrebbe esprimere la situazione in cui quest’istituitone si trova essere: alla fine di un’epoca o all’inizio di un’altra?

 

Mattia Giannone