Ben Russell, Ben Rivers: A Spell to Ward Off the Darkness


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BEN RUSSELL, BEN RIVERS

 

A SPELL TO WARD OFF THE DARKNESS

 

(Fr., Ger., Est., 98 min., col., documentario (?))

 

Per mano dei registi, questo A Spell to Ward Off the Darkness è un liquido che si sposta fra la finzione e il documentario. Come tale, non è fortunatamente possibile etichettarlo in qualsivoglia genere. Il lavoro di Ben Russell e Ben Rivers è sia documentario sia finzione e, allo stesso tempo, nessuno dei due. A Spell to Ward Off the Darkness è un film.

Tre vite, tre momenti di una stessa esistenza o una triplicazione spazio-temporale di uno stesso uomo? Poche certezze per una trama rarefatta, ricca di visioni e non di spiegazioni, in grado di sovvertire gli schemi cinematografici. In un primo tempo si vede una comunità su un’isola a largo dell’Estonia. La seconda parte ci presenta un uomo (già presente nella prima parte) in fase eremitica nei boschi della Finlandia. Nella terza e ultima sezione, l’uomo in questione è cantante in un gruppo black metal in Norvegia.

Con una panoramica orizzontale ipnotica, il duo registico inizia aprendo le porte delle possibilità dell’uomo. Non è un salire o un discendere nei vari strati delle possibilità di vita; si è di fronte a un aprirsi all’orizzontalità temporanea del contemporaneo. Contemporaneamente, insomma, posso essere in una comunità in Estonia, nella natura selvaggia finlandese o in un gruppo black metal. Non vuole essere moralizzatore; non si tratta neppure di una scelta esistenziale. Cos’è il lavoro di Ben Russell e Ben Rivers? Una scelta estetica e programmatica. Lo stato più elevato della possibilità dell’opzione, non è quello di preferire una di queste vie, ma poter trovarsi di fronte a esse. È in tal senso che le tre parti di A Spell to Ward Off the Darkness devono essere intese. Come al cinema, si è qui di fronte a tre spettacoli di cui l’uomo può o no farne parte. Ecco perché questa pellicola non è la storia di tre momenti della vita di un individuo. A Spell to Ward Off the Darkness è la vita di un uomo/spettatore nelle sue sfaccettature. L’uomo in questione è il protagonista delle tre vicende, ma è anche spettatore di esse. Un astante attivo, come lo è quello cinematografico.

La comunità

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La prima parte ricorda sorprendentemente un film di Von Trier o, quantomeno, appena uscito da Dogma 95. La macchina da presa segue le vicissitudini di un gruppo di quarantenni che vivono tutti nella medesima comunità. L’uomo protagonista della pellicola appartiene al gruppo, ma la sua posizione è anonima e schiva. Meglio, la cinepresa sceglie di non riprendere il protagonista preferendo un altro sottogruppo della comunità. Il tutto è proposto allo schermo nella sua più totale naturalità: le riprese sono grezze, i rumori sono quelli naturali, così come le luci, e le persone non recitano (o, almeno, sembrano non recitare). Lo spettatore e il personaggio sono di fronte a una prima scelta estetica: la vita in comunità con la sua bellezza primordiale della quotidianità, ma priva di certezze future (movimento di continuo della cinepresa).

 

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L’isolamento

Il vagabondaggio dell’uomo nella natura finlandese è tutt’altro dalla comunità estone, ma non per forza migliore. È bene ribadirlo: il duo registico non ci vuole mostrare cosa è meglio e cosa non lo è, ma proporre in una visione orizzontale (come la panoramica iniziale) la gamma estetica in campo. Al silenzio totale dell’uomo, gli oggetti e la natura rispondono con i loro rumori. Il vogare del personaggio principale ritma questa parte lenta e riflessiva. Per comprendere appieno questo lato estetico della scelta, si può anche considerarlo sotto l’aspetto del virtuosismo registico. Se nella prima parte, la macchina da presa è in perpetuo movimento fra un elemento e l’altro della comunità, nel capitolo successivo le inquadrature fisse si susseguono. Memorabile e infinita quella della barca al centro del lago, in grado di far nascere la riflessione nei fruitori. Perché, infatti, Ben Russell e Ben Rivers si dilungano su questa inquadratura? Certamente per accondiscendere l’aspetto eremitico del personaggio, seguire il ritmo della natura, dei pensieri lontani dal mondo civilizzato, ma anche per elogiare l’arte cinematografica e la grandezza estetica del suo fine. Il protagonista non brucia casa sua per un determinato fine esistenziale. Il rogo è il fine. Bruciare la propria abitazione è un fatto estetico di contemplazione, ancor prima che esistenziale, un gesto che ci permette di guardare uno spettacolo, lo stesso che vede lo spettatore. Certamente non è giustificabile, ma la questione non è morale: siamo su piani estetici.

 

La musica

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Indossare una maschera e poi essere un altro individuo; il protagonista si cosparge il volto di bianco, si trasforma e diventa un cantante black metal. A Spell to Ward Off the Darkness è anche un omaggio alla natura umana, a quella naturalità originale che è possibile ritrovare nei rituali. Si è di fronte a un rito, a un passaggio iniziatico e si entra nell’ambito sacrale, inteso come struttura della coscienza. L’uomo, in un determinato tempo e spazio, diventa altro da sé per interpretare un ruolo, quello del cantante all’occorrenza. Ancora una volta, allora, il film di Ben Russell e Ben Rivers si profila come una riflessione sull’arte cinematografica, perché quello che appare in questa fase non è altro che l’esplicazione visiva del gesto attoriale. Chi è colui il quale muta per diventare altro, se non l’attore? La ritualità dell’attore è ciò che si vedeva in Holy Motors ed è ciò che si vede in A Spell to Ward Off the Darkness. Là come qui, dopo un piano sequenza mozzafiato, l’essere attore è un’esperienza traumatica, quasi sciamanica, che lascia tracce indelebili anche dopo la performance. La riflessione cinematografica prosegue anche nel momento in cui, senza stacco, la macchina da presa si allontana dalla trance attoriale/musicale dei membri della band per cogliere lo sguardo degli spettatori, medesimo a quello della sequenza dell’incendio: lo spettatore è un frammento dello scibile cinematografico. La grandezza di un piano sequenza non va ricercata nella sua durata, ma nella sua intensità cinematografica.

 

Mattia Giannone