“There are some films that make you cry,
there are some films that make you laugh,
there are some films that change you forever after you see them;
and this is one of them.”
(Darren Aronofsky, presidente della giuria al 68esimo Festival Di Venezia)
Introduzione
Arrivo al cinema giusto in tempo e rimangono solo 5 posti in sala per Faust. Ala destra, seconda fila: torcicollo. A dispetto di molti che hanno denunciato l’eccessiva pesantezza e lentezza del film, non ho staccato lo sguardo per un secondo dallo schermo. Sulla prima cosa non ho obiezioni: non è un filmetto. Sulla seconda sono in disaccordo: Faust è un maelstrom che risucchia lo spettatore, non ha cadute di tono, cattura la mente. Ma sarebbe stato bello osservare le reazioni dei presenti in sala. Chi incantato in estasi; chi annoiato sbadiglia; chi disgustato fa smorfie. Scrivere una recensione su un film del genere è una specie di atto masochistico, e del tutto inutile poiché un migliaio di persone mille volte più esperte di me hanno già steso fiumi di inchiostro/bit. Ma ritengo che un film come questo non possa mancare su questo blog. Faust è destinato a rimanere la scommessa di questo decennio. Dopo due giorni di digestione, mi viene in mente qualcosa.
Cinema Russo + Letteratura Tedesca = Roba Pesante
Solo a un pazzo, o un genio, come Aleksander Sokurov poteva venire in mente di girare un film sul mito di Faust. A ben pensarci, il piano-sequenza di 96 minuti dell’Arca Russa aveva preannunciato il delirio di onnipotenza romantica del suo creatore. La passione per la ricchezza e il dettaglio è caratteristica di tutta l’arte russa, dalla musica alla pittura, e la tendenza nostalgica del regista per atmosfere zariste, pre-rivoluzionarie, non è un segreto. Ma Faust e il suo mito rappresentano una sfida davvero epica: confrontarsi sul fronte letterario con Goethe (non Marlowe) e su quello cinematografico con… il resto del cinema. Perché il suo è un cinema unico, grandioso, aristocratico, improntato sulla ricerca dell’assoluto, e contemporaneamente incentrato sulla vanità di tale ricerca. Innanzitutto il genere trattato: Grottesco. Bello e brutto si confondono, fusi chimicamente dalla cinepresa. E il Diavolo, con il suo passaggio, rende bizzarra ogni cosa: esso stesso è un informe grassone puzzolente. Il film pullula di visioni angeliche e mostri orrendi, tanto che alcune scene sono di forte impatto (l’Homunculus potrebbe diventare un incubo ricorrente). Faust non scende mai a patti con il pubblico, e nulla concede se non la consapevolezza di stare assistendo a un evento ancora più importante del film stesso: Faust inizia mostrando uno specchio nel cielo e tu, spettatore, ti vedi riflesso. Faust non è pensato come un film che debba sentire il bisogno di un pubblico: l’idea è che il pubblico debba sentire il bisogno di Faust.
Voglio Sprofondare con l’umanità
Dalla contemplazione della volta celeste precipitiamo dritti nel lerciume di un tavolo operatorio e quindi tra le mani di Faust, intento a dissezionare un cadavere. Pensavate quindi di assistere a qualcosa di celestiale? Bene, eccovi intrappolati in questo piccolo villaggio teutonico, modellino non in scala del mondo e dell’umanità ricchissimo di dettagli, sporco, fetido, morente. In stato perenne di decomposizione. In questo attualissimo (sebbene fuori dal tempo e dallo spazio) postaccio, la gente fa la fame ed è perseguitata da creditori, e anche un plurilaureato saccente uomo di scienza come il Professor Faust è messo male: moralmente e finanziariamente. Niente lo turba o diverte più ormai, è bruciato dal desiderio: di conoscere, agire, andare oltre. Gli esseri umani di questo mondo poi non sono esattamente dei gentiluomini: ogni conversazione civile si risolve nello scontro/intreccio dei corpi, compressi in spazi angusti, morfologicamente informi, sempre e comunque ripugnanti, in cui ogni dialogo è intenzionalmente segnato da continue, estenuanti interruzioni (la vecchia perseguitatrice, gli studenti ubriachi, i cani al funerale). Anche le più profonde digressioni filosofiche vengono rappresentate con il fango, le viscere, il letame: mai il conflitto tra contenuto trattato e oggetto mostrato è stato così forte. Il film straborda di spinte, lotte, cadute, perdite di coscienza, allucinazioni. In mezzo a tutto questo Faust fa la parte dell’osservatore distaccato. Ma ecco arrivare questo informe usuraio: è il diavolo. E vuole la sua anima.
Il viaggio da Divina Commedia di Faust e del Diavolo tra rovine, osterie, boschi e confessionali sono l’anticamera di un inferno che ha le sembianze di una landa desolata islandese; i personaggi che incontrano vengono sistematicamente corrotti dal loro passaggio, emergono e ricadono nello squallore della loro esistenza: con questo film Sokurov misura la profondità della degradazione umana. Gli uomini che il regista ha messo in scena (Hitler, Lenin e Hiroito), e di cui Faust è sintesi sublime, sono tutti tentati dal potere e condannati alla distruzione; Faust, esperto di tutto ciò che è scibile, medicina, astronomia, legge e filosofia, rappresenta anche l’ansia del vuoto e della solitudine, tormentato da un insaziabile bramosia di conoscenza, denaro e sesso; dunque la sua anima è persa in partenza. L’arma vincente del Diavolo è Margarete, ragazza pura e perfetta, splendente di luce propria, figura salvifica dantesca, unica luce nelle tenebre e ossessione ultima di Faust: accetterà l’eternità all’inferno per una sola notte con lei.
Uno spettacolo per gli occhi
Sokurov deve avere fatto un patto col diavolo realizzando questo film. Faust è girato in 4:3. Che già è anacronistico, disarmante. L’intento del regista è di spogliare la sua opera di ogni forma di intrattenimento senza però rinunciare alla spettacolarità visiva. Innanzitutto attinge a piene mani nella tradizione rinascimentale, specialmente Bosch (Il Giardino Delle Delizie); alcune scene potrebbero essere fotografie di nature morte, altre (Manet: Colazione sull’erba) dipinti senza cornice. Eppure, allacciandosi al passato, Faust fa compiere al cinema un poderoso balzo in avanti. La composizione ricercatissima delle immagini, le inquadrature deformanti, le prospettive oblique, sono un’esperienza sensoriale travolgente non solo visiva ma anche uditiva e perfino olfattiva (sembra di captare l’odore delle erbe, il tanfo della sporcizia). Ciò che però fin dai primi secondi colpisce chiunque (anche chi di film ne ha visti pochi) è la fotografia, unica, impareggiabile. Buona metà del fascino attribuito alla pellicola viene da quell’atmosfera acquitrinosa e marcescente. Che muta, infiammata dal ritratto di Margarete, in luce accecante che tutto scalda e rianima.
Film sopravvalutato?
Rimosso ogni dubbio sull’incredibilità visionaria del film, e sulla fantasia a briglie sciolte che lo sorregge, rimane da dire che solo il tempo deciderà se Faust rimarrà o meno una pietra miliare della settima arte. Chiaramente esagera il pubblico di Venezia che applaude per 10 minuti consecutivi, e anche il giornalista che scrive “Capolavoro senza se e senza ma” (che per me non esiste). Ma esagerano di sicuro anche i detrattori, che parlano di eccessiva noia e lettura troppo ostica. Fanno venire un pò di acidità certi articoli, come questo, che ho scoperto tramite il blog amico “Solaris”. A voi il giudizio. Per quanto mi riguarda, Faust si affianca ai grandi capolavori di Bergman e Tarkovskij: Cinema assoluto.
Pingback: Bela Tarr: Il Cavallo Di Torino | I Cineuforici()
Pingback: Migliori film: 2011 | I Cineuforici()
Pingback: LA NOSTRA CINETECA | I Cineuforici()
Pingback: Xavier Dolan: Mommy | I Cineuforici()