Bela Tarr: Il Cavallo Di Torino

BELA TARR

Il Cavallo Di Torino

(Ungheria 2011, 149 min., B/N, drammatico)
“Lasciate Ogni Speranza Voi Che Entrate” (Inferno, Canto III, vv. 1-9)

Se pensavate che Von Trier avesse toccato il fondo con il pessimismo cosmico di Melancholia, si vede che non avete ancora visto A Torinói ló di Bela Tarr. Se avete trovato un film come Faust un pò noioso (avevate torto, in ogni caso), beccatevi questi 149 minuti di immobilità siderale. No, veramente: lasciate perdere.

Nei primi secondi una voce fuori campo dice esattamente: “A Torino il 3 Gennaio 1989, Friedrich Nietzsche esce dal portone numero 6 di via Carlo Alberto; alla vista di un cocchiere senza nome – “Giuseppe? Carlo? Ettore?” – che brutalmente frustava il suo cocciuto cavallo perché si rifiutava di muoversi il filosofo si lancia ad abbracciare il cavallo piangendo. Ultimo gesto di un Nietzsche che scivola nell’oblio dell’insanità mentale. Quello che è successo al cavallo…non ci è dato sapere”. La pellicola illustra nei successivi 148 minuti sei giorni nella vita (vita?) del cocchiere, di sua figlia e del loro cavallo. Si alzano dal letto, aprono la stalla, mangiano, accendono la stufa e vanno a dormire (tutto senza proferire parola). Ancora e ancora e ancora. Ah, giusto, ogni tanto si siedono a guardare fuori dalla finestra. Ah, e poi ricevono la visita di uno strano tizio e di alcuni zingari (forse l’unico elemento “fuori” dal film, la vita selvaggia come fuga e salvezza).

Bene, si capisce che è un film estenuante. Se poi ci metti anche un rovinato sporco B/N misto a un rumore di vento incessante, siamo a posto. Trattasi di una di quelle opere che richiedono totale abbandono da parte dello spettatore più sensibile, il quale è costretto (per arrivare a fine pellicola) a sacrificare buona parte del suo tempo e del suo sorridente ottimismo. E’ l’opposto della medaglia nel cinema d’alto livello, quello con l’ambizione di catturare l’inafferrabile, di ragionare per valori assoluti, innamorato d’infinito e d’eternità, ma che proprio per il suo rifiuto di scendere a compromessi non può entrare nel cuore di tutti.

Perchè allora l’ultimo film di Bela Tarr è Un-Grande-Capolavoro-Opera-D’Arte-Suprema con così tante lettere maiuscole? Forse perchè anche tu spettatore potresti sentire le tue cellule che invecchiano, mentre lo guardi. O perchè potresti trovare, in quei gesti ripetuti in modo continuo e rassegnato dai suoi protagonisti, anche qualcuno dei gesti che compi tutti i giorni. Ora, per Tarr questi gesti sono la fine del mondo, la vera apocalisse. Altro che asteroidi, virus, catastrofi nucleari e pianeti blu (per rimanere in tema Von Trier): qui l’Apocalisse arriva tutti i giorni, tutti i giorni sono l’Apocalisse. Tutta la terra è in rovina, in mano a uomini avidi, mentre gli uomini nobili ed eccellenti si sono estinti. Il fulcro dell’opera, se si regge fino agli ultimi minuti, è l’agghiacciante rendersi conto che ogni giorno è più buio del precedente. Progressivamente vediamo i personaggi ripresi sempre più da lontano; il cavallo smette di mangiare; il pozzo si secca; la lampada ad olio si spegne; gli uomini smettono di mangiare; il sole si spegne definitivamente. Dissolvenza.

Il Cavallo Di Torino è una pagana rappresentazione della Fine.

Stefano Uboldi