As mile e uma noites: O inquieto – Miguel Gomes (analisi)


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ANALISI

MIGUEL GOMES

AS MIL E UMA NOITES

O Inquieto

(Port., 125 min., col.)

SINOSSI

Nella quale Sherazad racconta le inquietudini che si abbattono sul paese: “O Re felice, si racconta che in una triste nazione dove si sognano balene e sirene, la disoccupazione si diffonde. La foresta brucia di notte nonostante la pioggia e uomini e donne trepidano d’impazienza di gettarsi in acqua in pieno inverno. A volte, gli animali parlano, ma è improbabile che li si ascolta. In questa nazione nella quale le cose non sembrano essere quelle che sono, gli uomini di potere passeggiano sul dorso di un cammello e nascondono un’erezione permanente e vergognosa; essi aspettano che arrivi infine il momento della colletta delle tasse per poter pagare uno stregone che…”. E il giorno si levò, Sherazad tacque.

ANALISI

Chi è “l’inquieto” di questa prima parte? Inquieti, ma sono un tutt’uno, lo sono: il regista, il Portogallo e i suoi abitanti soffocati dalla crisi economica.

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La pellicola (perchè di pellicola si tratta: 16 mm e 35mm) si apre sui cantieri navali attanagliati dalle difficoltà occupazionali che preferiscono trasferire la produzione altrove. Lo sguardo ricorda quello delle prime vedute cinematografiche dei fratelli Lumière: gli operai che lavorano, che gettano uno sguardo in macchina e il tentativo di riprodurre in parte la realtà tale e quale. Gomes mostra la quotidinaità dura e cruda del Portogallo, come un reportage: uno sguardo documentaristico con voce fuori campo, un cinema in prima persona.

Davanti a queste immagini com’è possibile realizzare un film? L’inquietudine del regista aumenta e la macchina da presa lo riprende immerso nelle sue riflessione (lo spettatore ha accesso al suo pensiero), in compagnia della sua troupe cinematografica. La cinepresa si “rivolta” alla debolezza del regista e lo riprende. Gomes ha la “mani molli” e lascia la presa, divenendo attore suo malgrado. Non solo diventa protagonista, ma tenta di fuggire angosciato e sconvolto dall’impossibilità di realizzare una pellicola che si faccia carico della difficoltà politica, sociale ed economica attuale.

L’inquietudine non è solo rivolta agli artifici umani, ma anche ai cambiamenti climatici e all’ecosistema. Delle vespe, venute da chissà dove (si respira una certa aria di piaga biblica), stanno mettendo a dura prova le api portoghesi. Ora si capisce il malessere del regista: dove si può trovare della speranza politica, climatica e cinematografica in tutta questa inquietudine? Di certo non attraverso i soliti canoni cinematografici.

Non si tratta di mero didascalismo cinematografico o di facile autoflagellazione sulla sorte del paese, ma di preambolo per una riflessione sulla possibile via d’uscita. Non c’è traccia di piagnisteo contemporaneo, perchè l’inquietudine registica è mostrata attraverso l’occhio ironico gomesiano. La fuga del regista ha tutta l’aria della farsa, in grado di mandare al tappeto la struttura cinematrografica. A briglie sciolte, ossia priva della regia, le immagini si sfasano rispetto al suono, in sequenze affascinanti e indicibili.

Queste non bastano. Una volta che Gomes verrà catturato, sarà costretto dalla troupe a raccontare storie per alleviare la sua pena. Qui finirà il prologo e inizierà il racconto. Insomma, ciò che doveva essere un documentario sulla crisi dei cantieri navali, sta diventando qualcosa d’altro e ancora impossibile da definire. L’impossibilità, la difficoltà, permette la creazione (come nel precedente Aquele querido mes de agosto).

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Lasciati gli ormeggi del reale, l’impasse registico sembre dissolversi in una narrazione surreale. La parola viene lasciata, infatti, a una Sherazad contemporanea che vive in un altro “tempo”. Non fuori dal tempo, ma in un altro: motoscafi si mescolano a costumi arabi e magnificenze mediorientali. Stiamo entrando nel cinema, come racconto e come finzione (si veda il primo lungometraggio di Gomes A cara que mereces).

Si sta affrontando un punto decisivo della poetica gomesiana e che ricorre in tutti i suoi film: il regista redige un patto di finzione con lo spettatore. Quello che si vede è finto, è una storia (o più di una in questo caso) e lo spettatore deve esserne a conoscenza per fare in modo che la magia possa ancorarsi. Non si deve credere che sia il reale (Gomes ci dice che non può dare alcun frutto questa variante), ma che sia finzione. Lo spettatore va al cinema, sapendo che viene raccontata una storia. Ecco perchè si vede il regista, quello che sta dietro alla macchina da presa o si sentono le preoccupazioni di Gomes: il reale si sta superando nel cinema. Quando la finzione è palpabile si ha cinema, si ha narrazione e si hanno infinite possibilità di immagini. Lo stesso principio lo si ritrova, seppur in maniera diversa, in Wes Anderson e Jean-Pierre Jeunet per citarne due su tutti gli altri. Insomma, e chiudendo la parentesi, un cinema che mostra solo il reale è sterile: è necessario costruire la finzione per avere nuove narrazioni, attraverso il benestare dello spettatore.

La soglia fra reale e fiabesco non è, per il regista di Tabu, così netta. Quello che Sherazad/Gomes racconta è un leggero scostamento dalla quotidianità (tutte le storie sono ispirate a fatti reali, raccolte da Gomes con l’aiuto di alcuni gironalisti). In questo universo, in questa soglia, l’erezione perenne degli uomini potenti è sinonimo del desiderio di potere e di volere sul popolo portoghese. La metafora sessuale coglie appieno la situazione critica degli stati europei. Nella foto di gruppo il loro pene è eretto: tutti desiderano qualcosa, senza poter godere. Il dolore e la frustrazione attanaglia i nababbi della troika. Il volere e potere sessuale è quello economico: sono destinati a non provare piacere e non dare piacere ad altri. Essi pensano solo a loro stessi (al loro pene) senza pensare ad altri, che non hanno voce in capitolo.

Il popolo non ha voce in capitolo neanche nell’altra narrazione di Sherazad: un gallo non può raccontare la sua storia. Le persone, ottusamente,

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vogliono ucciderlo perchè il suo canto dà fastidio. Attualmente, infatti, non si vuole più ascoltare la voce dei cittadini che hanno qualcosa da dire. Quando, finalmente, viene lasciata la parola al gallo si verranno a sapere aspetti ignoti ai cittadini del paese e sul mistero di alcuni incendi.

La voce del gallo, quella degli ingenti, viene ascoltata e accolta da un sindacalista sull’orlo della crisi di nervi. Con lui, lo spettatore ascolta la voce di tre “magnifici” disoccupati portoghesi ritornando al reportage della prima parte. La materia è reale (essendo dei “veri disoccupati”), ma possone essere mostrati in compagnia di una balena spiaggiata o di una sirena agonizzante. Lo spaesamento fantastico è della stessa natura dello spaesamento reale, quotidiano della disoccupazione. Raccontare una storia o rifugiarsi nelle abitudini (la bellissima sequenza del bagno invernale), permette di alleviare il dolore e di avere ancora delle speranze.

Da un reale infranto alla creazione di un nuovo mondo, quello cinematografico. Una realtà nella quale anche un gallo ha diritto di parola e nella quale, grazie a Miguel Gomes, possiamo ancora credere.

 

Mattia Giannone