Oliver Stone: Inversione di Marcia
Pochi secondi e mi piace già: Sean Penn che sfreccia nel deserto su una Mustang rossa sniffando cocaina tra serpenti, cactus, sole accecante: guasto al motore. Poi, declino.
Pochi secondi e mi piace già: Sean Penn che sfreccia nel deserto su una Mustang rossa sniffando cocaina tra serpenti, cactus, sole accecante: guasto al motore. Poi, declino.
Questo film, che NON VUOLE essere un biopic di John Keats, che SOLO APPARENTEMENTE è un film di costume e che QUASI CERTAMENTE vi sembrerà un tedio senza fine, è probabilmente il più romantico, (in senso letterale-culturale-filosofico, non hovogliadite-mocciastyle), affascinante e riuscito film sulla poesia che (almeno io) abbia mai visto.
“Due anni lui gira per il mondo: niente telefono, niente piscina, niente cani e gatti, niente sigarette. Libertà estrema, un estremista, un viaggiatore esteta che ha per casa la strada. Così ora, dopo due anni di cammino arriva l’ultima e più grande avventura. L’apogeo della battaglia per uccidere il falso essere interiore, suggella vittoriosamente la rivoluzione spirituale. Per non essere più avvelenato dalla civiltà lui fugge, cammina solo sulla terra per perdersi nella natura selvaggia”.
Un sogno e il tentativo di realizzarlo. Questo potrebbe essere il sottotilo ideale della pellicola di Werner Herzog.
Molti film hanno affrontato il tema della Natura e i problemi che emergono nell’istante in cui la specie umana non presta attenzione a ciò che la circonda. Long Weekend, tenta di proseguire questo filone spostandosi verso “il pauroso”.
In uno scenario post-apocalittico in cui vive la legge “ognuno per sé stesso”, un padre (Viggo Mortensen) e suo figlio (Kodi Smit-Mcphee) cercano invece di aiutarsi e proteggersi a vicenda lungo una strada “che porta al sud”. Attanagliati dalla fame e dal freddo, i due sopravvivono in questa civiltà regredita, scappando e nascondendosi da mendicanti affamati, incubi e cannibali organizzati in pseudo-gruppi.
Una pattuglia della guardia nazionale compie un esercitazione nelle paludi della Louisiana. In preda all’esaltazione e impazienti di provare i “giocattoli nuovi”, i soldati sparano a salve sui cacciatori cajun, una etnia di immigrati francesi che risiedono appartati ai confini della civiltà. Comincia una caccia spietata da parte degli abitanti del luogo.
“Un momento, aspetti che le spieghi una cosa: IO non sono il Signor Lebowski, LEI è il Signor Lebowski. Io sono Drugo, è così che deve chiamarmi, capito? O se preferisce Drughetto oppure Drugantibus oppure Drughino, se è di quelli che mettono il diminutivo ad ogni costo…”.
Due fratelli, una sola passione: la musica! Si potrebbe riassumere la trama del film con queste semplici parole, ma non si renderebbe giustizia a un capolavoro assoluto.
Accolto freddamente dalla critica americana, The Blues Brothers riuscì negli anni successivi alla sua realizzazione (1980) a ritagliarsi un posto privilegiato nella storia del cinema, anche grazie al successo che riscosse in Europa.