Bruno Dumont: P’tit Quinquin
BRUNO DUMONT
P’TIT QUINQUIN
(Francia 2014, col., quattro episodi da 52 min., commedia)
Che schiaffo! Bruno Dumont spiazza tutti. Il suo percorso filmico/filosofico cambia rotta e dallo studio del dramma, con tutte le sue varianti, passa allo studio della commedia, anzi della comicità. Per i Cahiers si tratta di una vera e propria bomba cinematografica, per I Cineuforici di uno schiaffo: un vero e proprio affronto alla contemporaneità.
Innanzitutto, si tratta di una serie tv (anche se esiste una versione scope per il cinema: a Cannes fu presentata sotto questa veste) e come tale va accolta. Poiché serie televisiva (il canale Arte ha dato carta bianca al regista), P’tit Quinquin esige un formato specifico: meno campi lunghi (amati da Dumont), più campi medi e primi piani (spesso in lieve contre-plongée); durata prestabilita. Dumont coglie queste restrizioni come una possibilità e non come un freno alla sua opera.
Oltre a questi dati, che cos’è P’tit Quinquin? L’opera del regista filosofo è un rimescolamento delle carte contemporanee; un
ribaltamento visivo e uditivo; un altro punto di vista sulla quotidianità; un rivoltamento dei generi cinematografici. P’tit Quinquin spiazza lo spettatore: è uno schiaffo improvviso. Banalmente, è talmente “altro” che non sappiamo ancora dire se ci è piaciuto o no. Forse il termine “piacere” non è il più appropriato. Questo perché non si riesce a fare una qualsiasi comparazione con un qualsiasi altro precedente cinematografico o televisivo.
La trama in sé non è nulla di particolare. In fin dei conti P’tit Quinquin è un’indagine poliziesca che ruota intorno a una serie di omicidi a tematica agricola. Due poliziotti di un paesino di campagna nel nord della Francia sono incaricati delle indagini. Il tutto è visto con gli occhi di un bambino, annoiato dalle vacanze estive.
Partendo dalla parodia del genere poliziesco, molto alla moda, il lavoro di Bruno Dumont supera questa fase del comico, per sfociare nel burlesco e, ancora più in là, nell’assurdo. C’è chi ha rievocato alcuni momenti di Twin Peaks, c’è chi l’ha paragonato ai film di Chaplin e chi ancora a Jacques Tati, ma in verità P’tit Quinquin è qualcosa di “nuovo”. È ovviamente erede del passato, quello comico francese ad esempio, ma è anche e soprattutto portatore di novità cinematografica. Dumont è riuscito a omogenizzare (si vedrà in quale maniera) i diversi momenti del genere comico, poc’anzi accennati, espressi dal gendarme e dal luogotenente, alle azioni innocenti del giovane protagonista e ai momenti più riflessivi tipicamente “dumontiane” (la banalità del male, i problemi sociali, la disabilità e le varie difficoltà quotidiane elevate questioni spirituali).
C’è, però, dell’altro: egli non è riuscito solo in questa impresa, ma anche in quella del “far notare” allo spettatore il lavoro
d’omogeneizzazione. P’tit Quinquin è in equilibrio precario fra dramma e comicità, fra la cavolata e il capolavoro, fra la serie tv e il film, fra l’artificio e la naturalezza, fra il dilettantismo e il professionismo. L’omogeneizzazione allora non è più, classicamente, dietro alle quinte ma compare in superficie: lo spettatore non può non rendersi conto di questo lavoro artigianale. Dumont porta alla luce del sole, ciò che solitamente non si vede: la realizzazione di un’opera. Gli assi calati dal regista per mostrare quanto detto, sono proprio le estremizzazioni delle situazioni, il voler caricare e ancora caricare d’ironia, di dramma e di espressioni ogni singolo istante della serie tv. L’equilibrio trovato da Dumont, questo mostrare il tentativo di omogeneizzare, è spiazzante. Un vero e proprio schiaffo per lo spettatore, lasciato lì sul suo divano in balìa delle immagini, delle parole appena viste e a chiedersi: “Che razza di roba ho appena visto?”, “Mi è piaciuto?”. Al secondo, al terzo e, infine, nell’ultimo e magnifico episodio, tornano tutti i conti. La lunghissima e assurda sequenza del funerale non dà più fastidio, perché rientra nel cerchio di P’tit Quinquin: non deve piacere o no, deve scombussolare gli elementi cinematografici finora dati per certi.
Nel lavoro di Dumont, l’auto della polizia può arrivare anche su due ruote.
Mattia
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