Aditya Vikram Sengupta: Labour of Love

Aditya Vikram Sengupta
 

LABOUR OF LOVE

 
(India 2014, 84 min., col. e b/n, drammatico)

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Dal dato di fatto, quasi didascalico, delle condizioni lavorative a Calcutta, l’opera prima di Aditya Vikram Sengupta si astrae fino ad arrivare a frangenti privi di spazio e tempo.

Vera sorpresa a Venezia 71, Labour of Love rimane impresso allo spettatore per la chiarezza iniziale nella sua analisi del reale. Il

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regista ci pone di fronte al problema tramite una radio e un fondo nero: lo speaker annuncia le difficoltà sociali e lavorative di Calcutta. Da qui, le strade da intraprendere sono due: un’analisi sociale sull’India o un tentativo poetico di sopravvivere e/o un andare oltre alla crisi economica. Aditya Vikram Sengupta sceglie la seconda strada. Se, infatti, la considerazione del reale è ben presente nell’opera indiana, il tentativo del suo superamento estetico e poetico (non reale) è, però, la chiave della pellicola. Insomma, il dramma sociale è evidente ed è il basamento della pellicola, ma non è esposto in maniera classica.

La giornata di marito e moglie si articola sull’impossibilità d’incontrarsi, ma la casa diventa testimone del loro legame. L’incontro non avviene fisicamente, ma sono gli oggetti di casa da loro utilizzati che permettono l’incrocio quotidiano. I panni stesi, i piatti lavati o il cibo preparato tessono le fila di un legame fra marito e moglie che va al di là del contatto fisico fra i due. La pellicola non vuole, quasi scontato dirlo, elogiare un amore gestuale, ma fa della necessità una virtù: in un’India in difficoltà si deve prendere questa situazione “limite” (l’impossibile incontro marito e moglie) per quello che è, senza autocommiserarsi.

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Da questo punto in poi e solo in questo modo, è possibile un altro tipo di pellicola che vada oltre il dramma sociale. Liberato da questa catena, il film può esprimere esteticamente la difficoltà indiana. Innanzitutto, è da sottolineare una tendenza da “sinfonia urbana”. Come molti lavori degli anni venti e trenta, Labour of Love è ritmato dai suoni e dai rumori. Le vibrazioni della piazza, della fabbrica, ma anche quelli della cucina o del resto della casa attirano l’attenzione dello spettatore, anche per il semplice fatto che i personaggi rimangono in silenzio. Le ventiquattro ore sono pertanto scandite dai suoni e dai rumori. Il tutto è destinato a ripetersi ogni giorno, in un perpetuo ciclo quotidiano.

Il lirismo di questo giovane autore pervade anche l’immagine. I dettagli catturati dalla macchina da presa dell’India, di Calcutta e dell’abitazione della coppia fungono, così come il suono, da emblema della società, ma anche da istanti necessari per il montaggio filmico. Le crepe sui muri, le spezie, le gocce d’acqua, i peli del gatto, i binari del tram, la bicicletta non sono istanti “tappa buchi”, ma vere e proprie porte che permettono di trascendere il dramma sociale. Porte che sono totalmente spalancate in una delle sequenze finali: i due si sono finalmente isolati (anche a livello cromatico), pur mantenendo un legame, dal reale e vivono alcuni istanti d’amore.

La fine, invece, sarà un nuovo giro di lancette.

Mattia