Andrey Zvyagintsev: Leviathan

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ANDREJ ZVYAGINTSEV

Leviathan

(Russia 2014, 140 min., col., drammatico)

Ci sono film necessari e importanti, film che dovrebbero scuotere e far discutere, film che sono studiati per indignare e mettere in luce i mali della società. Leviathan di Andrej Zvyagintsev è tutto ciò, e non potrebbe importarcene di meno. Non intendiamo rivangare come talebani i nostri punti di riferimento a sostegno delle nostre tesi; e beninteso, non consideriamo la pellicola russa in concorso a Cannes un brutto film (per un risultato che è, anzi, pregevole), ma un film che, per il modo in cui esprime le sue idee, finisce col smorzare l’incisività che dovrebbe avere di diritto in relazione ai temi che affronta (e i fatti di cronaca recenti ribadiscono l’emergenza con cui dovrebbero essere affrontati).

Quadro agghiacciante di vita e morte nella russa di Putin, paese che, dopo aver visto questo film, si perderà automaticamente la voglia di visitare (e conoscere: appunto), Leviathan muove con furbizia le molle dei sentimenti di un pubblico colto e sensibile tanto all’austerità formale quanto alle preoccupazioni della cronaca recente. Il protagonista è un rozzo meccanico/riparatore che si vede minacciata la propria casa (siamo da qualche parte sul mare di Barents: facile setting per inquadrature “da fine del mondo”) dal sindaco/boss mafioso della situazione, che agisce col benestare della chiesa ortodossa. Arriva ad aiutarlo un vecchio amico del luogo che ora vive a Mosca. Risolverà tutto l’uomo civilizzato di Mosca? Macchè. Quello che segue: minacce, tradimenti coniugali, risentimento, violenza. E tanta, ma proprio tanta, vodka: non passano 5 minuti senza che vengano inquadrate bottiglie semivuote e sguardi catatonici. Leviathan è di un fatalismo estremo, e nonostante gli sforzi dei protagonisti, (spoiler) per loro sembra inevitabile che non andrà a finire affatto bene. Questo fatalismo non ha nulla di poetico e affascinante, tant’è che ci è sembrato come un pretestuoso sforzo del regista nel ribadire quanto il proprio sia un paese sporco e corrotto, in cui i cattivi prevalgono sempre.

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Zvyagintsev, autore già celebrato con il Leone in una edizione veneziana anni fa (Il ritorno, 2003), programma il suo film combinando i due canali del privato e del pubblico della società russa, nell’adozione di toni Dostoevskyani saldamente appoggiati su una robusta architettura. Partito, forse, con l’ambizione di spiegare i mali del proprio popolo, Zvyagintsev è giunto a dichiarare un completo pessimismo nei confronti di ogni tentativo di cambiamento; perchè l’uomo è vittima della sua natura malvagia, le spinte alla giustizia sono illusorie dal momento che è nella natura dell’uomo aspirare al potere, ed è nella natura dell’uomo compiacersi nell’opprimere e nel farsi opprimere. Il finto distacco e l’austerità dell’autore sono percepibili ad ogni fotogramma, così come la ricerca di soluzioni visionarie (l’incipit; lo scheletro di balena); sarebbe quindi veramente splendido, se nella stessa misura non emergesse anche in maniera evidente una asfissiante rigidezza formale e tematica. Il problema è che per come è chiuso e inflessibile, Leviathan si configura, piuttosto che come un tentativo di analisi serio e lucido, come un punto di non ritorno (così è la Russia: ti piaccia o no), come la conclusione di un discorso che non ammette altre soluzioni, che non apre ad altre interpretazioni se non quella già anticipatamente programmata dal suo autore, oltre al quale la chiarezza sempre maggiore e la ripetitività di una tesi (si veda il finale: didascalismo ideologico puro, stato e chiesa a braccetto, letteralmente) infastidisce e allontana.

Si possono fare film importanti e necessari senza cadere nel didascalismo, operando a fondo nella suggestione (anche ludica, umoristica) dello spettatore; è spontaneo il paragone con un film, almeno negli intenti, simile a questo, cioè quel Touch of Sin che si presentava come il Leviathan di quest’anno, ma con risultati assai più felici. Leviathan è il classico esempio di film importante che non deve mancare in ogni festival cinematografico che si rispetti. Un film ben realizzato certo, ma un film-pamphlet, di cui, onestamente, qui non sappiamo che farcene.

Stefano