Jia Zhangke: Il Tocco del Peccato
JIA ZHANGKE
Il Tocco del Peccato
(Cina 2013, 135 min., col., drammatico)
TRAMA. Uno sguardo sulla Cina contemporanea attraverso le vicende di quattro personaggi: Dahai, minatore esasperato dalla corruzione dei dirigenti del villaggio, decide di agire; San’er, un lavoratore emigrante tornato a casa per la fine dell’anno, scopre le infinite possibilità offerte dalla sua pistola; Xiao Yu, receptionist in una sauna, si vede costretta ad arginare ad ogni costo le avance di un cliente facoltoso; Xiao Hui passa da un lavoro all’altro in condizioni di sempre più degradanti. Il ritratto che ne esce è quello di una società in via di sviluppo economico, ma brutale e violenta. (cinematografo.it)
E’ di qualche giorno fa la notizia, riportata dal New York Times, del blocco dell’uscita in Cina di Il Tocco del Peccato. Senza spiegazioni o comunicazioni ufficiali, i giornalisti cinesi sarebbero stati invitati a non parlare nè commentare il film. Lasciandoci alle spalle ogni discussione politica, che però già suggerisce la portata di questo film straordinario, preferiamo come al solito limitarci ad affrontare un discorso mirato agli aspetti strettamente cinematografici della pellicola. A mio modesto parere, Il Tocco del Peccato è forse l’esperienza più riuscita tra quelle dei film presentati a Cannes quest’anno (pur non avendo ancora visto Like Father Like Son e Inside Llewyn Davis). Per contenuto, per risultato e, come anticipato, per importanza politico-cinematografica: Il Tocco del Peccato non è infatti solo un’opera imprescindibile per capire la Cina di oggi, ma anche un punto cruciale nella carriera di Zhangke e forse per esteso di tutto il cinema cinese. Il Tocco del Peccato ha quella peculiarità che si ritrova spesso nei classici, avvertibile nel suo essere da una parte il film più accessibile nella carriera del regista (vincitore del Leone d’Oro con il Capolavoro Still Life nel 2006), e insieme a tutti gli effetti un film che non arretra nè rinnega la sostanza del suo autore.
I meriti del film sono grossi. Una scelta narrativa dura e conclusiva (miglior sceneggiatura a Cannes), spinta sino all’estremo con ammirevole coerenza; una realizzazione tecnica di qualità superiore (tutto. movimenti di macchina, fotografia, montaggio, finanche scenografie, costumi ecc.); una pregnanza grottesca che coglie incisivamente, anche travisando e caricando com’è suo diritto, un mondo in sfacelo.
Con notevole coraggio, il cineasta ha adottato una forma di linguaggio densa e continuamente in bilico tra novità e tradizione. Ed erigendo, nella sua ripartizione in 4 storie, impalcature narrative intrecciate ed equilibratissime, è riuscito a svincolarsi dalla tipica struttura del film “sociale”, agendo con precisione e polso maturo.
Il Tocco del Peccato è un film sulla propagazione endemica della violenza in Cina, sventrata da un capitalismo sfrenato. Quattro episodi ispirati a quattro personaggi di quattro casi di cronaca nera. Per caratteristiche e struttura potrebbero essere 4 film distinti, che solo vagamente richiamano l’un l’altro. L’intento di Zhangke è antropologico, più che artistico. Invece di concepire un’unica storia “universale” il cineasta, appoggiandosi a 4 unità, copre una vasta area geografica di 4 province impensabilmente (per noi occidentali) lontane tra loro compiendo una riflessione ugualmente efficace sul male, sulla società moderna e su come questi due aspetti siano interdipendenti. L’enigma del film, riverberato superbamente nel finale, scaturisce da una domanda: il Male esiste innatamente dentro ai personaggi, come nel Peccato Originale? Nell’opera non mancano riferimenti e immagini religiose. Oppure, gli individui vengono contagiati dal male (Il Tocco del Peccato appunto) quando rivolgono la loro furia verso i loro oppressori (o verso sè stessi)? Sembrerebbe prevalere la seconda: Prima di tutto, dice il regista, ci rendiamo conto della relazione esistente tra violenza e dignità. Quando la dignità di qualcuno viene violata, e questi non trova il modo di riacquisirla, ricorre semplicemente alla violenza; eppure, la violenza è così tanto presente in ogni scena, così profondamente radicata, da far sembrare l’universo come investito da una degradazione entropica impossibile da arginare, il che farebbe prevalere la prima ipotesi.
A parte la sua idea di fondo, cos’è che ci piace tanto di Il Tocco del Peccato? Il suo essere teso tra estremi apparentemente inconciliabili. Non è solo il contrasto tra brutalità e bellezza, già presente meglio e altrove nel cinema orientale. E’ la convivenza forzata tra passato e futuro, che genera i paradossi che riempiono il film; e la rappresentazione, sospesa tra realismo e stilizzazione . Proprio quel realismo che nel 2006 ci ha portato ai cantieri della Diga delle Tre Gole ora ci sbatte nuovamente in faccia le rovine delle miniere dello Shanxi (terra d’origine dell’autore), sottolineandone l’incontrollata privatizzazione; o ancora la donna, ancor più che mercificata, semmai ridotta a prodotto usa e getta; o ancora il mondo del lavoro come “work or die”; o ancora il divario tra ricchi e poveri, e la nuova, barbarica mentalità dei “nuovi ricchi” ingrassati insieme ai corrotti funzionari di partito. Di fronte a tutto ciò, l’arma, lo sfogo violento, finanche il suicidio, rivelano una esigenza, seppur distorta, di giustizia. Gli elementi dell’opera teatrale, le preghiere ai demoni, le profezie degli oracoli, la sacralità degli animali (tigre-cavallo-serpente-bue) e tutto l’apparato simbolico (di cui non sappiamo niente) che questi hanno alle spalle, configurano la realtà di una Cina millenaria che fa resistenza al Nuovo e si rifiuta di venire cancellata. Ciò che invece risulta cancellata, è l’ideologia di “uguaglianza” maoista, di cui rimangono solo alcune polverose, pleonastiche statue di Mao.
Tutto ciò è legittimo e corretto, ma c’è di più. Quel che ci affascina davvero è che invece di soffermarsi ad una rappresentazione realista Zhangke cambia rotta sul versante della finzione, ed è allora che respiriamo vero cinema. Il Tocco del Peccato è si un “affresco mai visto della Cina”, ma è anche uno strepitoso film orientale, costituito da elementi distanti anni luce dal classico film realista. Un film che digerisce e rielabora le caratteristiche del cinema asiatico, specialmente il Wuxiapian. Così, la vendetta del primo personaggio a colpi di fucile contro i corrotti del paese non è realistica: è da Far West. E la reazione della ragazza che, rifiutando di prostituirsi, viene presa a sberle da una mazzetta di banconote, non è realistica: è da arti marziali. Così anche i singoli episodi sono fortemente differenti gli uni dagli altri, per struttura, ritmo e fotografia. Il primo episodio del minatore è lineare, diretto, esplosivo ai limiti del pulp: uno shock per chi conosce il regista, di tutt’altra inclinazione. Il secondo episodio dell’emigrante è cupo, introverso, quasi esistenziale. Il terzo episodio, quello della receptionist (la grande Zhao Thao), è il migliore: avvolto in una fotografia onirica, è pieno di riferimenti mistici, ed è anche quello in cui è più tangibile la sensazione di distacco realtà/finzione, che comunque permea tutta la pellicola. L’ultimo episodio, è il più asciutto, documentaristico, ma anche il più disperato, perchè tratta il suicidio di un giovane senza lavoro e col cuore infranto. La soluzione del film, di fronte a queste vicende, è un mistero. E in una scena di inappuntabile eleganza, il regista sembra infine rivelare che realtà e finzione formano un tutt’uno.
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