Pawel Pawlikowski: Ida

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PAWEL PAWLIKOWSKI

Ida

(Polonia 2013, 80 min., b/n, drammatico)

 

Dopo aver affrontato la categoria “Academy Film” con Dallas Buyers Club e I Segreti di Osage County, ma soprattutto dopo aver visto Nebraska di Alexander Payne (per il quale sarebbe interessante fare un confronto, sia per il comune impianto road-movie sia per l’utilizzo del bianco e nero, con la pellicola in questione) viene spontaneo parlare di “Festival Film” assistendo a questo Ida del regista polacco Pawel Pawlikowski. Ecco, il film di Pawlikowski è il grado massimo di film da festival: contiene tutti i pregi e i difetti del “genere”, se in questo modo lo vogliamo chiamare.

 

A scene from Pawel Pawlikowski's award-winning Ida.

Ida è una pellicola che farebbe contento qualsiasi cinefilo da cineforum. Se nei film da “Oscar” ciò che fa andare in visibilio il parruccone hollywoodiano è solitamente sia la vicenda di redenzione, sia l’impegno sociale, o in molti casi l’interpretazione (trasformazione fisica, ormai) indimenticabile, nei film da “Festival” ciò che invece appare qualitativamente convincente è l’inquadratura arty, la pausa riflessiva, il bianco e nero e perchè no, una scarsa profondità di campo (facendo finta che non sia mai stata inventata) e un formato nostalgico 1.37:1: tutto ciò è lampante in Ida. Toni polemici a parte, noi amiamo questi elementi, ma siamo convinti che non sia sufficiente richiamare alla mente passati gloriosi per realizzare un film che rimanga veramente impresso nella memoria. Così come non pensiamo che un ermetismo ostentato sia sufficiente a valorizzare una gigantesca quantità di tematiche. Perchè, seguendo le vicende di Ida, una ragazza in procinto di prendere i voti in un viaggio per la Polonia socialista, Pawilikoski si ritrova costretto a concentrare all’interno del suo film una tale confusa profusione di argomenti che essi paiono conseguentemente attaccati l’uno all’altro con la colla; Compressi in 80 minuti ci sono: il dubbio di una ragazza che deve scegliere tra la vita religiosa e la vita laica; l’Olocausto; la famiglia; la memoria; la Polonia socialista; l’amore e altre (molte) cose che sicuramente mi sono lasciato sfuggire. La quantità di rimandi è notevole, ma non ce n’è uno solo che sia approfondito al punto da rimanere impresso nello spettatore. Ida è definitivamente un bel film che accontenta tutti: da quelli che nel cinema cercano profondi significati senza (si spera) messaggi/morali, a quelli che cercano la qualità strettamente estetica. Per questa ragione, il film ha avuto un successo straordinario nei circuiti festivalieri, dentro ai quali i critici hanno gustato un piatto facile (che non richiede grandi ragionamenti) e pronto per essere esaltato dalle penne dei professionisti.


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Ida ha dalla sua parte uno sviluppo narrativo appassionante nonostante un richiamato (Dreyer e Bresson) rigore formale, composto in parte dall’austerità delle inquadrature che tagliano sistematicamente i corpi dei protagonisti lasciandone visibili solo i volti schiacciati da una sbilanciata parte superiore opprimente (foto), in parte dai netti contrasti di bianco e nero. Tutto ciò va giustamente rispettato e descritto: ma è tutto qui. Non c’è infatti un “oltre” a parte la delicatezza dell’autore tradotta in una splendida composizione di immagini, o in una ricostruzione degli anni ’60 minuziosa, o in una colonna sonora che spazia da Bach al jazz di John Coltrane. Questi sono infatti valori aggiunti di un’opera che, vista nei suoi singoli aspetti può incantare, ma che vista nella sua completezza è piuttosto debole e pretenziosa. Meravigliosa sì l’intimità celata della sua protagonista, ma perchè metterla così sfacciatamente in contrasto con la zia che l’accompagna in viaggio, guarda caso, tratteggiata grossolanamente al suo opposto, così cinica e moderna? Appesantisce infatti alla lunga il gioco delle opposizioni: Religione contro laicismo, timidezza contro sfrontatezza. Risulta poco credibile (anche se, ripeto, visivamente affascinante) un finale nel quale Ida, figura angelica con gli occhi pudicamente rivolti in basso per 3/4 del film, una volta provati i vestiti della zia, si ubriaca andando a letto con un sassofonista appena conosciuto. Cadendo in questi tranelli, il regista polacco (trapiantato però in Inghilterra) non fa altro che mandare a monte il rigore fino a quel momento dimostrato (rivelandolo per quello che è: purezza estetizzante poco funzionale) allo scopo di raggiungere una forzata risoluzione che non solo si rivela frettolosa, ma che uccide tutto il mistero, la potenzialità.

In conclusione, Ida è un film corretto che consigliamo a chiunque voglia godere di 80 minuti di buon cinema, ma che non è riuscito ad incidere i nostri occhi e il nostro cuore. Poveri noi.

Stefano