Martin Scorsese: The Wolf of Wall Street
MARTIN SCORSESE
The Wolf of Wall Street
Nella sua interpretazione più divertente di sempre, Di Caprio gigioneggia senza remore, saltellando su vari registri (comico/isterico/drammatico), in un ruolo, quello di Jordan Belfort, che richiede una performance costantemente sopra le righe. Il lato più affascinante di Belfort è che esiste solo agli occhi del mondo e che vive come re del suo mondo (com’era Howard Hughes in The Aviator), smettendo di esistere quando è da solo. Mi spiego: quando Jordan ha l’occasione di ritirarsi evitando così i guai legali che lo perseguitano, cambia spettacolarmente rotta in un monologo di fronte ai suoi dipendenti (“noi siamo l’America”). In questa scena è chiaro che la sua compagnia di brokers è il suo palcoscenico, l’unico luogo in cui può non solo essere sè stesso, ma ispirare altri aspiranti squali con la sua fame (denaro/droga/sesso) diffondendo il Verbo (guadagna/spendi/divertititi) declinato in forme sempre più chiaramente (auto)distruttive. Questo momento chiave del film, in mezzo a tante ripetizioni, è quello in cui Jordan realizza che, se egli smettesse di essere la Stratton Oakmont, smetterebbe di essere. Jordan trasforma l’ufficio nel suo personale luogo magico in cui tutto può accadere, in cui i soldi possono davvero trasformare la realtà in un carnevale senza fine, in cui anche il sesso smette di essere privato, in un godimento potenzialmente senza termine, godimento aumentato sadicamente dalla consapevolezza di aver guadagnato sulle speranze infrante di migliaia di investitori (affamati di soldi, come lui; il pesce più grosso mangia il pesce più piccolo, e così via).
A un aumento della grandiosità del cinema di Scorsese, non riscontriamo però in esso un arricchimento proporzionale di senso. Ciò risulta evidente dall’esiguità della trama, che trascina il film in una catena di aneddoti (Jordan che interroga il maggiordomo gay che gli avrebbe rubato i soldi; Jordan che usa la famiglia per trasferire soldi in Svizzera; Jordan che prova a corrompere l’FBI ecc.); il che va a costituire una struttura macchinosa che non rende giustizia ad una sceneggiatura oltraggiosamente straordinaria. Il film rimane concentrato sui vizi dell’ingordigia e della vanità (il tutto, fortunatamente, senza predicozzi), e rimane sul fronte umano senza mai estendere il discorso al lato puramente economico/finanziario; mostra i sintomi, indugia sugli eccessi, senza preoccuparsi troppo di indagarne i meccanismi; il sistema non è fondamentalmente malvagio, ma è il modo distorto che se ne fa che produce mostri. Scorsese non vuole parlare di capitalismo, non sa, non vuole fare davvero i conti con esso, e si limita a descriverne gli eccessi (umani; e solo dopo sistemici). Ad esempio, è interessante la scena della penna (che non a caso chiude il film), ma viene a mancare, nello svilupparsi della pellicola, una riflessione sul rapporto tra la vendita, il bisogno e la sua creazione (la creazione del bisogno come metodo vincente di vendita). Preferiamo considerare comunque queste mancanze non come delle omissioni ma, più correttamente, nella luce di una chiara presa di posizione dell’autore: il punto di vista del pubblico e quello dell’artista non è mai conciliabile e va preso atto di questo. Per questo, non diremo cosa ci sarebbe piaciuto vedere (tanto, a fronte del poco messo in scena, reiterato a dismisura per 3 ore) in The Wolf of Wall Street e ci atteniamo solo al risultato, peraltro ottimo, del regista statunitense.
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