James Gray: C’era una Volta a New York
JAMES GRAY
C’era una volta a New York
Divento pericolosamente parziale quando parlo di James Gray. Per alcuni è uno dei più brillanti autori americani, per altri un mestierante che ha poco da dire; alcuni scrivono che realizza capolavori di grande espressività, altri affermano che è solo un raffinato regista di melò. Quando dico che siamo – sono, in verità non conosco l’opinione del collega al riguardo – imparziali intendo dire che, almeno per chi scrive, Gray è, come minimo, un realizzatore di film genuinamente commoventi, forti di una carica espressiva al tempo stesso tragica ed elegante, sofisticata e al contempo naturale, soprattutto in riferimento agli ultimi I Padroni Della Notte e nel meraviglioso Two Lovers (per citare i più famosi e recenti, ma Little Odessa e The Yards non erano da meno, anzi). Impossibile negare che si tratta di un regista di drammi melodrammatici, ma di un genere di melodramma intelligente e convogliato nella modernità; se poi si aggiunge che anche in questo film Gray si avvale di due fidati amici, l’attore Joaquin Phoenix e il direttore della fotografia Darius Khondji (già collaboratore di Jeunet), il gioco è fatto.
Restando sempre al confine tra cinema d’intrattenimento e opera d’arte, James Gray, cesellando a dismisura i suoi film di sequenze memorabili e intense, di dolcezza e violenza che, specialmente nel cinema statunitense, raramente si sono viste convivere così bene, dà spesso l’impressione di voler cercare testardamente il capolavoro, l’opera complessa e profonda che lo consegni definitivamente ai posteri, a costo di sembrare auto-indulgente e pretenzioso. Qui, infatti, il talento e il potere espressivo emerso nei suoi ultimi film sembra subire se non una battuta d’arresto, una decelerazione, e non tanto per pigrizia o stanchezza, ma perchè più che in passato tende a lasciare troppo la scena ai suoi collaboratori. Infatti, pur mantenendo una regia appassionata e trascinante, spesso a catturare l’attenzione è più che altro la pregevole tavolozza ocra e giallo oro di Khondji, che dona una dei migliori effetti cromatici per ambientazione “retrò”, oltre che un’alternanza di chiaroscuro al solito superbo (il chiaroscuro è una costante stilistica di Gray, indipendentemente dal direttore di fotografia con il quale collabora); e l’eleganza delle sue inquadrature non può che essere eclissata dalla grandezza (vogliamo finalmente dirlo che è il miglior attore sulla piazza?) di Joaquin Phoenix, inutile dilungarsi a lodarlo: il suo monologo finale, colmo di una disperazione trattenuta a malapena come un vulcano, fa venire un groppo in gola.
E’ tutto vero quello che è stato scritto: che, a parte il ritratto dei personaggi, il film non dice nulla di pregnante; che il tema dell’avanspettacolo (quello dei disgraziati, di Bruno e del suo concorrente in amore, il mago Orlando), particolarmente succoso considerando che ci troviamo nell’epoca in cui esso veniva progressivamente sostituto dal cinema, sia trattato in maniera disinteressata per lasciar posto alle esplosioni emotive; e che le contraddizioni del sogno americano sono accennate e mai approfondite. Il tono generale da kolossal ad alto budget non aiuta. Ma non riesco proprio a non farmelo piacere Gray. Sarà lo sguardo partecipato nei confronti dei suoi miserabili, il suo potere evocativo, i particolari che spesso dicono più delle parole, ma proprio no, non riesco a dire che The Immigrant è un occasione sprecata.