Asghar Farhadi: Il Passato
ASGHAR FARHADI
Il Passato
(Fra 2013, 130 min., col., drammatico)
(visto in occasione della rassegna “Cannes e Dintorni”)
Con Una Separazione e ancor prima con A Proposito di Elly ci eravamo già accorti della propensione di Farhadi alla sceneggiatura, che il regista iraniano utilizza come mezzo, anticipando la macchina da presa, per condurre il suo personale discorso sul confronto, la relatività e l’importanza dei differenti punti di vista. Su un aspetto due anni fa ci siamo sbagliati: La sua attitudine alla confutazione, che emerge chiaramente nei meccanismi con cui assembla e smonta le convinzioni dei suoi protagonisti, e indirettamente le nostre come spettatori, non era allora solo un alibi per rappresentare l’Iran moderno e le sue contraddizioni: Farhadi punta molto più in alto e con il suo ultimo film ci convinciamo che la sua arte travalica in tutti i sensi ogni confine geografico.
Spesso tendiamo a curarci poco della trama di un film, ma in questo caso, come nelle sue pellicole precedenti, la trama è fondamentale. In Farhadi quella che noi chiamiamo “trama” non è solo il basamento che il cineasta posa per potervi poi erigere la sua visione; non è solo un punto di partenza dal quale poter esprimere uno stile personale, o in eccesso, un pretesto per ostentare il proprio narcisismo. La “trama” in Farhadi è una cosa seria, e complessa, minuziosa, e mancare di attenzione ad una singola battuta significa perdersi una particella di quella sostanza eterogenea che è il suo cinema. Il congegno è stato collaudato, e ora la precisione certosina che già affiorava nei due film precedenti è allo stato dell’arte. Un marito torna dall’Iran in Francia, incontra la ex moglie (Berènice Bejo) per firmare le carte del divorzio (agente detonante, come in Una Separazione). In casa della ex moglie convivono dunque lui, lei, due figlie di lei avute da un precedente marito che abita lontano, ma soprattutto: anche il nuovo amante di lei con il figlio. La moglie dell’amante è in coma dopo aver tentato il suicidio; forse dopo aver scoperto la relazione del marito con l’altra (B.B.). Come è facile intuire la vicenda è fittissima di contenuti e a questo punto ci vorrebbe un post solo per scrivere la continuazione. A conti fatti, se non fosse diretto da Farhadi, sarebbe una noia mortale.
Con la classe del maestro, quella che sembra un’insipida telenovela nelle sue mani si trasforma in una disamina della vita e delle sue contraddizioni. Come in Una Separazione sappiamo che qualcosa è successo; il regista ci dice cosa ma non ce lo fa vedere. La ricerca svolta dai protagonisti sui fatti che non conoscono, i modi in cui cercano di nasconderli, e genericamente i confronti tra di loro, sono spesso vicoli ciechi che di riflesso pongono lo spettatore in una condizione scomoda, incapace com’è di incolpare o favorire nessuno, messo com’è in riferimento al buio, all’ignoto. Il passato che da il titolo all’opera non è qualcosa di definito e inamovibile ma è una materia flessibile che si ri-plasma ad ogni avvenimento, azione e rivelazione del presente. L’effetto è sempre destabilizzante, e insieme stranamente positivo, benefico, mentre sembra di assistere a un dramma dai connotati thriller, in cui la suspense è però sapientemente convulsa di toni dimessi alternati a esplosioni emotive. Come abbiamo ricordato all’inizio, Farhadi non è davvero interessato ai confini geografici in quanto non è un regista politico. Farhadi non è incline ad attaccare una particolare ideologia nè tantomeno ad aggredire grossolanamente i capisaldi della dottrina conservatrice che determinano le politiche del suo paese, come qualche osservatore superficiale potrebbe pensare. Il suo cinema è quanto più universale si possa chiedere, non per quello che mostra, ma per la complessità con cui lo mostra. Come Assayas, non ricorre all’espediente della semplificazione perchè la semplificazione è una bugia; in questo senso la famiglia, nucleo pulsante della sua poetica, non è una unità ma una coesistenza di individui carichi di tensioni differenti e spesso discordanti. Caratteristico in questo senso è la mancanza di un reale protagonista: a dominare la scena inizialmente sembra essere l’ex marito, al centro la moglie, infine l’amante.
Detto ciò, appare evidente che insieme alla scrittura ad essersi affinata è anche la tecnica, e questo per noi è un bene e un male: un bene perchè l’impressione di aderenza alla realtà è sempre più convincente, grazie sopratutto a personaggi ben caratterizzati e alle interpretazioni superbe (su tutti, la Bejo), al potere di coinvolgimento e di commozione, che raggiunge lo zenit nel dilatatissimo finale; un male, si fa per dire, perchè la regia è così impeccabile da sembrare piatta e cristallizzata. Insomma, ci manca un pò di quella cinepresa a mano, e di quell’atmosfera di contrasti sociali (e non solo individuali) che dava un pò di asprezza pungente a Una Separazione. Ma non facciamo troppo i difficili, qualsiasi altro cineasta invidierebbe un “difetto” come il suo. Autore della problematicità nei rapporti tra le persone, esperto dei relativi “ferri del mestiere” (malintesi, incomprensioni ecc.), ma anche poeta dei gesti quotidiani, artista della discrezione, Farhadi conserva con questo nuovo gioiello il suo posto nell’olimpo dei grandi autori cinematografici contemporanei.
Stefano Uboldi