Paul Thomas Anderson: The Master
PAUL THOMAS ANDERSON
The Master
(USA 2012, 137 min., col., drammatico)
Non parleremo degli ovvi riferimenti a Scientology e delle controversie che ne sono conseguite. Non è la sede nè il momento. The Master non è politico come ci si aspettava, non impiega la polemica (se non per far parlare, subliminalmente, di sè) come mezzo d’espressione, è invece un’opera che analizza il rapporto tra servo e padrone attraverso un ampio spettro di tematiche e punti di vista, che vanno dall’attrazione ai limiti dell’omoerotismo alla sanità mentale, dalla psicanalisi pura (spettro della madre, proiezione di sè sugli altri ecc) al sesso, alla messa in discussione della percezione sensoriale, alle filosofie indù di reincarnazione, all’evoluzione della specie. Ma semplifichiamo (che è brutto, ma inevitabile): il tempo è il secondo dopoguerra, il luogo gli Stati Uniti, prima la California e poi New York. Il servo è J.Phoenix, veterano con evidenti turbe psichiche, un balordo, un animale mosso da bisogni corporali, il bere, il sesso, il menare le mani, vive una vita apparentemente libera passando di lavoro in lavoro, ma è prigioniero di sè stesso. Salito per caso su una nave ormeggiata a Los Angeles, incontra il padrone, P.S.Hoffman, un sognatore, guru-mistico-scienziato-intellettuale, fondatore della Causa, una setta in piena ascesa che ha come unico scopo migliorare l’umanità intera, senza disdegnare di raccogliere fondi per portare a compimento la grande impresa; presto Phoenix diventerà il suo esperimento preferito e anche il suo cagnolino tuttofare.
Se la relazione tra i protagonisti è il cuore del film, la costruzione drammaturgica si adegua di conseguenza. Ci si è lamentati di mancanza di solidità oltre che di mancata linearità narrativa, senza considerare che la progressione aperta, “liquida” risulta perfettamente funzionale all’intero sviluppo diegetico; infatti, dopo aver presentato i personaggi, il regista si sbizzarrisce mostrandoci gli andamenti comportamentali delle sue cavie di laboratorio, che si muovono secondo dinamiche particellari, in un ballo di attrazione e repulsione, scontrandosi, fondendosi, ricomponendosi allo scopo di raggiungere l’equilibrio. Neanche a dirlo, tutto è nelle mani degli interpreti che qui raggiungono probabilmente il picco delle rispettive carriere. Specie Phoenix, che lavora interamente sul suo corpo, sulle smorfie, riuscendo ad esprimere la bestialità del suo personaggio, e Hoffman controverso, schizofrenicamente spezzato tra la figura del padre amorevole e il leader che non ammette opinioni fuori dalle sue, uno che fa di sè un culto vivente, senza tralasciare l’enigmatica figura di Amy Adams, sempre sullo sfondo ma che sembra in più di un occasione tirare le fila dell’organizzazione. Mettendo in primo piano la complessità dei suoi protagonisti, The Master parla dell’uomo, della sua ricerca di equilibrio, della sua insicurezza in un mondo che gli è indifferente. Diverse sono le scene in cui i protagonisti sono soli in un paesaggio sconfinato, fuggendo o andando incontro a qualcosa di indefinito (la fuga nel campo coltivato, la corsa in moto nel mojave). Si coglie un rifiuto nel seguire traiettorie già battute e molto coraggiosamente si sfida lo spettatore a stare attento, a cogliere la follia insita tanto nel povero demente quanto nel padrone opprimente, a domandarsi se sia meglio un’angosciosa emancipazione che si accompagna alla solitudine, oppure una rassicurante dipendenza che si accompagna alla schiavitù; ogni sequenza è pertanto avvolta da un vuoto esistenziale, e contribuisce a determinare un crescendo terribile e minaccioso di solitudine.
La virtù della pellicola, o il difetto a seconda dei punti di vista, è che invece di sciogliere i nodi, facendo luce sul mistero, insiste con un gioco di incastri sempre più fitto, moltiplicando così le possibili interpretazioni: si veda la locandina, che non a caso riproduce l’immagine dei tre protagonisti reiterata ad infinitum su una superficie cristallina. Ogni scena nasconde un senso recondito, a volte immediatamente percepibile a volte ermeticamente inaccessibile; tra tutte (e sono molte, si vedano le fantasie erotiche di Phoenix), quella centrale dell’intervista, che meriterebbe un post interamente dedicato ad essa. In questa sequenza, il maestro fa breccia nella mente del servo, per chi scrive è emozionante solo parlarne perchè è un momento di cinema purissimo, un momento in cui si interrompe l’algidità intellettuale che caratterizza il resto del film, un rincorrersi di rimandi e flashback, una rievocazione del passato sentimentale che ti scruta dentro, un gioco di specchi sublime tra maestro e padrone e tra schermo e spettatore.
The Master varrebbe da solo al suo autore il titolo non troppo contestabile di massimo cineasta statunitense dei nostri tempi. L’attesa virale e il mistero che precede l’uscita dei suoi film lo hanno fatto accostare a Kubrick, e il paragone non è poi così azzardato. Dal punto di vista strettamente registico, il giovane ha vera classe nel muovere la macchina da presa. L’ho detto qua e là e lo ribadisco: questo film è una enciclopedia completa di tecniche cinematografiche. Tutto è da manuale: ci sono piani-sequenza strepitosi (la scena della prigione), finissimi campo-controcampo di primi piani (il test “a battito di ciglia”), carrellate lunghissime (la corsa in moto), persino la macchina a mano quando meno te l’aspetti; e poi quelle atmosfere così irreali, contemplative, in cui irrompono momenti intensissimi, che dire degli sguardi incantati ai grandi spazi aperti, quelle luci che tagliano lo schermo…andrebbe sviluppato un discorso a parte per quanto riguarda l’utilizzo del 70mm, formato che dà al tutto un’aura epica sia nei primi piani che nei campi lunghi, per una resa visiva assoluta che sembra superare gli spazi concessi dallo schermo. Ma il merito principale di Paul Thomas Anderson non è quello di essere talentuoso, ma di essere audace. Riesce ad essere classico senza apparire mai tradizionale, sempre proiettato avanti, si vede che è uno con Idee e voglia di Fare. Non si è accontentato di dormire sugli allori ripetendo la monolitica bellezza del Petroliere, film con cui ha tante analogie (impostazione, lavoro sugli attori, musica straniante) quante differenze (solido uno, liquido l’altro; tragico uno, psicologico l’altro; epico e chiuso uno, riflessivo e aperto l’altro). Forse la sparo grossa, ma mi sento di accostarlo a Orson Welles (a William Hearst che ispirò Quarto Potere) per il modo in cui si approccia a personaggi esemplari, che siano cercatori di petrolio (Edward Doheny) o “guide spirituali” (Ron Hubbard) al fine di esprimere concetti molto più ampi. Il cineasta non ha semplicemente riciclato la vecchia ricetta ma ne ha utilizzato alcuni ingredienti per forgiare un discorso completamente nuovo, la cui grandezza è percepibile più di testa che di pancia, ma insindacabilmente e oggettivamente inattaccabile.
The Master è quindi un’opera sfaccettata e ostica, estremamente intelligente, complessa e filosofica; riflessione sul desiderio più o meno volontario di trovare una guida, una parabola sul potere accecante della suggestione, una seduta psicanalitica. Il nostro blog non usa numeri e stellette per giudicare un film, ma se lo facessimo in questo caso saremmo fuori scala. Da vedere, da rivedere e da rivedere ancora.