Lana e Andy Wachowski, Tom Tykwer: Cloud Atlas
Cloud Atlas
(Usa/Germania, 2012, 170 min., col., fantstico)
I Wachowski ci riprovano. Risultato? Incompleto.
Tutto è legato insieme. Nessuno può essere considerato un essere univico e dai confini ben delimitati. Siamo quello che siamo grazie agli altri. Siamo uniti ad essi non solo spazialmente, ma anche temporalmente. Questo è il succo di tre ore di film: sei storie si intrecciano a livello temporale e spaziale, legate fra loro da una sottile linea spesso difficile da individuare ma sempre presente. Le sei vicende si dispiegano intorno a temi importanti: discriminazioni razziali, omofobia, strapotere delle “grandi” dell’energia, senilità anziana, totalitarismo e religione.
I fratelli Wachowski, in compagnia di Tom Tykwer, realizzano questa pellicola germanostatunitense, tratta dall’omonimo romanzo di David Mitchell, senza replicare l’ormai lontano successo del primo Matrix. Cosa esprime a livello visivo e narrativo questa fatica cinematografica? Non l’ho ancora capito.
Il film non convince sul piano narrativo: tre ore per non dire niente. Avrei sperato, seppur magari in maniera troppo scontata, in un legame fra le varie epoche più marcato, mentre invece esso si limita a risolversi nei singoli episodi lasciando lo spettatore ammutolito da tanta superficialità. E’ come se ci fosse del materiale per dire qualcosa, ma non riesce a essere detto. L’idea di un “Atlante delle nuvole”, ossia di un’atlante che non si limita a mostrare la lontananza/vicinanza spaziale, ma anche temporale, in sè non è male e, anzi, a livello cinematografico è una sfida molto intrigante. E’ quello che si attende lungo tutte queste tre ore, ma che non arriva.
Non si può sostenere che ci si annoia nel corso di questa maratona; non si vede l’ora che ci venga svelato il nocciolo della questione e quindi si presta attenzione a ogni singola sequenza, affamati di sapere e d’immagini rivelatrici. Si è lì in trepida attesa quando… finisce il film! Mostrare una caramella a un bambino per tre ore, per poi non darla, non è che sia il massimo della soddisfazione.
Annoiati dall’attesa, l’occhio dello spettatore si dirige verso i dettagli e si diverte come un infante (l’unico vero piacere della pellicola) a cercare sotto quali travestimenti si nascondono i vari attori. Perchè sì, dei legami fra le varie epoche ci sono (oltre ad arrampicature su specchi a dir poco scivolosi), ma si limitano ai vari personaggi temporali interpretati da ciascun attore: Tom Hanks è dappertutto sotto parrucche, rughe e cicatrici, così come Hugo Weaving (angosciante il suo ruolo d’infermiera), mentre Jim Sturgess è imbarazzante con la sua maschera da coreano (ma per fortuna interpreta anche altri personaggi).
Insomma, è meglio girare pagina.
Mattia Giannone
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