Miracolo a Le Havre: Aki Kaurismaki

Miracolo a Le Havre

(Le Havre, Finl. Ger. Fr. 2011, col., 93 min., drammatico)

Aki Kaurismaki entra (solo ora!) nel pantheon dei grandi registi: il suo Le Havre compie il miracolo.

Marcel Marx (André Wilms) è un lustrascarpe di Le Havre, cittadina francese della Normandia. Ogni sera, a casa, lo attendono il cane Laika e la moglie Arletty (Kati Outinen). La quotidianità di Marcel è destinata a non durare: la moglie ha il cancro e Idrissa (Blondin Miguel), un ragazzino immigrato che ha come meta Londra e sua madre, gli piomba in casa.
Marcel riesce ad amministrare la situazione, con l’aiuto
degli abitanti del quartiere e nonostante il ragazzo sia ricercato dalla polizia e da un commissario (Jean-Pierre Darroussin) troppo buono per essere cattivo. Si compierà un miracolo, grazie alla semplicità, al cinismo e al senso dell’umorismo di Marcel.

Chiamato alla prova del nove, il cineasta finlandese non delude. Dopo l’ottimo L’uomo senza passato, Kaurismaki deluse con Le Luci della Sera, stroncato (ingiustamente!) dalla critica senza pietà. Qui, dopo alcuni anni passati alla ricerca di una città portuaria adeguata, si riscatta realizzando un film europeo – per non dire internazionale, lontano dalla nicchia finlandese.

La sua pellicola è una “favola realista”, lucida, ironica e cinica. E’ narrazione perchè, come ama ricordare, si può fare un film con qualsiasi mezzo, ma se non c’è la storia non c’è film. Il miracolo, infatti, inizia e finisce: si compie. Non è credibile? E’ irreale? Forse, ma questo è Kaurismaki. Non c’è bisogno di girare un documentario per mostrare la realtà, perchè reale é tutto ciò che è umano, quindi anche le favole; specie se a sfondo sociale come quelle del finlandese. Il finale è semplice? Sì, ma così tanto da non essere scontato.

Il regista amante della vodka e delle sigarette, ha un suo stile nonostante sia secondario alla storia: le sue luci nei luoghi chiusi sono calde e malinconiche, esaltano i visi e le loro ombre; i colori pastello degli interni sono vivi, come se il tutto fosse rischiarato dalla fiamma di una candela: una “luce della sera”.

Memorabili gli attori e alcune sequenze. Queste possono essere ironiche, come quella del commissario e l’ananas, quella di Little Bob o la scena iniziale; altre sono dure e di forte impatto: l’apertura del container e gli occhi degli immigrati avvolti dal silenzio o il pasto di Marcel e Arletty.

E’ stato chiamato: il nuovo Chaplin, per l’ironia e la povertà. Perché mai? Non può essere semplicemente Aki Kaurismaki? E’ così che dovrebbe essere ricordato nella storia del cinema.

Mattia Giannone