Smoke

 Smoke

(Smoke, Usa 1995, 103 min., col. e B/N, drammatico)

La storia ruota intorno alla tabaccheria di Auggie (Harvey Keitel) a Brooklyn, dove le storie dei suoi clienti si intrecciano mirabilmente, accomunate tutte dall’unico tema del “peso di essere un uomo” (un padre precisamente).

Lo scrittore Paul Benjamin (William Hurt), frequentatore assiduo della tabaccheria, è in crisi. Da quando è stato lasciato dalla moglie, infatti, non riesce più a scrivere, ad avere idee; solo l’incontro con un ragazzino di colore e disagiato, scappato da casa, lo risveglierà dal suo “sonno” artistico.

Auggie, invece, scoprirà di essere (anche se manca la certezza “scientifica”) il padre di una ragazzina tossicomane, tentando di salvarla da questa situazione. Infine c’è la storia del ragazzino di colore, amico di Paul, che riuscirà a trovare il suo vero padre naturale, un meccanico menomato (Forest Whitaker).

Grande pellicola di Wayne Wang, ma sceneggiato e ideato da Paul Auster, in cui i sentimenti fanno da padroni.

Il film è un insieme di storie legate insieme non solo dalla tabaccheria di Auggie, ma anche dalla vicinanza di tutti gli esseri umani su certe “grandi questioni” (il rapporto padre-figlio, ad esempio).

Un capitolo a parte meriterebbe il finale di Smoke. La storia che regala Auggie a Paul Benjamin – mostrata allo spettatore in bianco e nero, con l’aiuto di Innocent When You Dream di Tom Waits – è senza ombra di dubbio da “storia del cinema”. Meravigliosa inoltre, l’interpretazione degli attori in più di un frangente:  quando, ad esempio, Paul racconta la storia sul “peso del fumo” a Auggie o, ancora, durante la scena fra Kaitel e Hurt quando il primo svela la sua passione fotografica al secondo. Impossibile, però, entrare nei dettagli senza rovinare tutta la magia poetica della pellicola di Wayne Wang.

Un grandissimo film, insomma, ricco di scene memorabili e premiato al Festival di Berlino con l’Orso d’Argento.

Mattia Giannone