Mostra del Cinema di Venezia – 1 Settembre


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ORIZZONTI – Hafsteinn Gunnar Sigurðsson: Under The Tree (Islanda)

Agnes caccia di casa Atli e non vuole che lui veda più la loro figlia Ása. L’uomo si trasferisce dai genitori, coinvolti in un’amara disputa riguardante il loro grande e magnifico albero, che fa ombra al giardino dei vicini. Mentre Atli lotta per ottenere il diritto di vedere la figlia, la lite con i vicini si intensifica. (dal sito della Biennale di Venezia)

In Under the Tree viene riproposta la solita formula del cinema nordico, in cui tutto deve essere raccontato con distacco, humor nero e senso del grottesco. Fin dai primi minuti si intuisce come la vicenda, che prende avvio da una banale rivalità (l’ombra di un albero sul giardino dei vicini) prenda automaticamente la strada di una escalation sempre più violenta e incontrollata. Va detto che la pellicola aggancia lo spettatore, non lo molla neanche per un attimo nonostante il diffuso senso di già visto, e comunque a modo suo cerca di essere imprevedibile. Il film vuole trasmettere una critica all’incomunicabilità tra vicini e non solo; ma qualsiasi libera interpretazione è stritolata da un meccanismo ad orologeria che è allo stesso tempo la forza e il punto debole della pellicola: Under The Tree non si apre mai, non esce mai dal binario precostituito, non offre spunti di riflessione che non siano già scritti in partenza.

 


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FUORI CONCORSO – Lucrecia Martel: Zama (Argentina)

Zama, ufficiale della Corona spagnola nato in Sud America, attende una lettera del re che gli conceda il trasferimento dalla città in cui è relegato a un posto migliore. La situazione è delicata: deve assicurarsi che niente sia d’ostacolo al trasferimento, per cui è costretto ad accettare docilmente ogni compito assegnatogli dai vari governatori che si alternano in città, mentre lui rimane sempre bloccato nello stesso posto. Gli anni passano e la lettera del re non arriva.  (dal sito della Biennale di Venezia)

E’ stato un vero e proprio esodo dalla sala, praticamente dimezzata alla fine della proiezione, Zama di Lucrecia Martel. E quindi eccolo, il tour de force che stavamo aspettando, il film più “cineuforico”, quello più concretamente fondato sulla compenetrazione di sostanza ed estetica, il primo vero film “impegnativo” (attenzione: non “impegnato”) della mostra. Le ragioni dell’esodo sono giustificabili: Zama è un film bellissimo, ma anche molto malato. Disgregato, spossante, difficilissimo da seguire, specie senza conoscere la materia di partenza, che sarebbe un classico della narrativa contemporanea argentina. Parole che vengono in mente durante la visione: stagnazione, corrosione, disfacimento. Film recenti che vengono in mente durante la visione: Jauja di Alonso (per l’ambientazione e il senso di smarrimento), Hard To Be A God di German (per l’assenza di valori, il senso di unto, sudore, sporcizia, precarietà e malattia che permea ogni metro di pellicola). Naturalmente, lui: Aguirre furore di Dio. Anche se il personaggio di Zama è un Aguirre “buono”, e forse per questo ancora più tragico. Superficialmente, il film è una critica, o meglio una colossale zoppicante presa in giro, del colonialismo spagnolo. Come il protagonista di Jauja, Zama è un uomo stimato, mosso da nobili valori, conosciuto come il corregidor che ha instaurato la pace con gli Indios senza usare la forza. Ogni suo sforzo, per quanto nobile, è puntualmente trascurato e dimenticato dai suoi superiori. E quello che all’inizio è nobiluomo senza paura, auto-personificazione idealizzata di un ideale quasi cavalleresco, si riduce sempre di più fino a scomparire, dimenticato da tutti. Ma più in profondità, Zama è un film sull’attesa, attesa dello spettatore perchè succeda finalmente qualcosa, che corrisponde all’attesa sempre più disperata del protagonista di venire finalmente trasferito, mentre tutto attorno a lui si disfa: i nobili valori cavallereschi, l’onore di Ufficiale. Film inconclusivo, sconnesso, alieno in questa Mostra che finora ha offerto solo visioni più o meno convenzionali.

 


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CONCORSO – Andrew Haigh: Leon On Pete (USA)

Lean On Pete segue le vicende di Charley Thompson, quindicenne che sogna una casa, del cibo nel piatto e una scuola da non dover cambiare in continuazione, e suo padre.Con la speranza di iniziare una nuova vita, i due si trasferiscono a Portland, in Oregon, dove Charley trova un lavoro per l’estate presso un malconcio addestratore di cavalli e diventa amico di un vecchio cavallo, chiamato Lean on Pete. (dal sito della Biennale di Venezia)

Dopo il bel 45 Anni, Lean On Pete non fa che confermare il talento del britannico Andrew Haigh. Solo, rispetto alle ambientazioni confinate dei film precedenti, Haigh si sposta negli spazi immensi della pianura americana. E’ stato un film un pò snobbato, ma che è invece sincero, autentico. Dopo un primo tempo che ricorda la classica storia di redenzione e amicizia (il ragazzo sfortunato e il suo cavallo), in cui tempi e spazi del racconto sono ancora familiari, ben definiti, nel secondo tempo Lean On Pete diventa qualcosa di molto più interessante,  che vaga senza meta come il protagonista, e che quindi è sempre pronto a sorprendere. Film ricco di piccoli momenti tenerissimi e cinematograficamente splendidi. Abbiamo già visto l’America dei grandi spazi mille volte, ma Haigh, con la bravura del regista classico, ce li mostra come fosse la prima volta.

 


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CONCORSO – Samuel Maoz: Foxtrot (Israele)

Quando degli ufficiali dell’esercito si presentano alla porta di casa e annunciano la morte del loro figlio Jonathan, la vita di Michael e Dafna viene sconvolta. (dal sito della Biennale di Venezia)

E’ piaciuto molto Foxtrot e non capisco perchè. Il barocchismo visivo e i sorrentinismi sono ormai esca di molti che intravedono nell’esercizio di stile una qualche forma di originalità cinematografica. A differenza di Lean On Pete, nel quale il regista dimostra aderenza, sensibilità e rispetto alla materia (nonostante la materia non abbia niente di nuovo e originale), in Foxtrot il regista ha a che fare con una materia intrigante, ma non sembra avere alcun interesse a svilupparla, quanto piuttosto a ricercare una resa visiva sopra le righe, estetizzante e fighetta che manda fastosamente a puttane quello che potenzialmente quella materia scottante era in grado di offrire. Tutto in Foxtrot è studiato per semplificare e circuire una materia complessa alle esigenze di attenzione personali dell’autore. Un tripudio di metafore, coglionerie passate per acuto umorismo (il cammello che attraversa la strada) e intellettualismi che ci fanno un pò incazzare.

Stefano