Aleksej Jurevic German: Hard to be a God
ALEKSEJ JUREVIC GERMAN
HARD TO BE A GOD
(Rus. 2013, 177 min., B/N, fantascienza)
“È probabilmente difficile essere un Dio,
ma è altrettanto difficile essere uno spettatore,
di fronte a questo terrorizzante film di German.”
(Umberto Eco)
Il lavoro di una vita. Un testamento mai ultimato, se non grazie al figlio. L’empietà dell’uomo messa a nudo in una funambolica esperienza visiva, messa a dura prova dalla quantità di materiale, dal disordine umano e dalla sua sporcizia. Questo e altro è Hard to be a God. Il problema sarà esplorare questo “altro”…
L’origine di Hard to be a God viene da lontano. Le sue fondamenta sono costruite quattordici anni prima e sono ispirate al romanzo di fantascienza, pubblicato nel 1964, dei fratelli Strugarski già autori di Picnic sul ciglio della strada, da cui Tarkovskij trasse Stalker. Il riferimento al grande cineasta non è casuale. Aleksej Jurevic German è il meno conosciuto fra i capisaldi di un certo cinema russo, ma non per questo è il meno importante. Il suo è un lavoro che s’inserisce a pieno diritto in quella corrente di rinnovamento artistico russo che vede la “materia” come cardine per elevarsi a una riflessione cinematografica, estetica e filosofica. Sokurov e Tarkovskij sono noti, German un po’ meno.
Il pianeta è Arkanar. È simile alla terra ma arrestato a uno stadio medievaleggiante. Del Rinascimento c’è solo qualche aborto, qualche frammento. Quest’arte fetale è stata abortita da sporadici umanisti, specie in via d’estinzione. Il personaggio principale è Don Rumata, forse ancora uno dei pochi a credere in una “rinascita”, partito alla ricerca di ultimi esseri razionali sterminati dai “Grigi”. Don Rumata è un dio, un semi-dio o figlio bastardo di una divinità. Come tale è temuto, rispettato, odiato da altri e motore di complotti irrazionali.
Hard to be a God
Arkanar, si accennava, è materia allo stadio malleabile. È la nausea del materiale. Si annusano escrementi, si scivola nella melma, si è sporchi e si puzza. Si ode ogni genere di rumori, da peti a suoni jazz di clarinetto (musica di Dio?), da armature a gemiti di ogni genere. È lo stallo, l’invischiamento artistico o l’impossibilità creativa del nuovo. Non si può andare “avanti” nello spazio e nel tempo, si ha quello che si ha qui e ora. In questo sistema maleodorante e rumoroso, non c’è “qualità”. Quello che si ha è “quantità”. Arkanar è strabordante di oggetti e persone (vive o morte) che ostacolano il cammino di Don Rumata (e il nostro, si vedrà). Ognuno è uguale all’altro e ognuno è parte della stessa “materia” che si (con)fonde in unicum semi-solido. La “materia” è ancora da plasmare o non è più possibile farlo? Don Rumata più volte tenta di modificarla, ma è difficile essere un dio. Difficile riconoscere l’istante creativo, in una tale rovina putrida e acquitrinosa. Don Rumata la tocca, la stringe a sé e se la porta al volto per poi ripartire in questo spazio senza via d’uscita, infinitamente chiuso.
In questa situazione si capisce perché è difficile essere un dio o presunto tale, ma è altrettanto difficile, come sostiene Umberto Eco, essere spettatore. Sì, perché l’occhio del pubblico coincide con l’occhio della macchina da presa. Allora, come Don Rumata, siamo inseriti in Arkanar, non lasciandoci tregua per tre ore di film. Siamo gli scagnozzi del protagonista, lo seguiamo ovunque vada schivando anche noi tutto ciò che egli schiva. La steadicam (spettatore) si muove con lui, in piani ravvicinanti che non lasciano respiro, in una messa in scena barocca, lussureggiante di oggetti, sovraccarica e debordante. I personaggi guardano la cinepresa, ci guardano negli occhi e vedono in noi lo straniero che scruta il mondo. Siamo terrorizzati dalla rottura della quarta parete, perché lo sguardo non è un’occhiata complice, ma qualcosa di fastidioso, viscido e che corre lungo la schiena. Tutti si conoscono, tutti pensano a loro stessi aggrappati a concatenazioni sociali e causali. Noi appariamo al loro sguardo come occhi indagatori che frugano nella melassa di Arkanar. Ci toccano, c’importunano e pongono le loro membra davanti ai nostri bulbi oculari, dandoci un senso d’oppressione e di claustrofobia. Siamo nauseati da tutto questo. Lo spettatore è terrorizzato. È inviato su questo pianeta a osservare la stagnazione dell’arte.
Ad affliggere la visione ci pensa anche un bianco e nero che non è tale. I contrasti sono disciolti in un viscoso grigio che omogenea il tutto (guarda a caso, i membri del clan che sterminano gli “artisti” sono chiamati i “Grigi”). Paradossalmente, la quantità di materiale è si barocca, ma qualitativamente non lo è. In questo grigiore, infatti, si fa molta fatica a distinguere i contorni dei vari oggetti e personaggi. È come se il regista volesse mostrarci la quantità, non permettendoci di distinguerla. Non si è in un film di Wes Anderson o Jean-Pierre Jeunet, tanto per estremizzare. Il barocco, l’opulenza e il fasto, non sono dati per essere colti al primo impatto: l’occhio deve lavorare, mettere a fuoco, distinguere all’interno di questo mondo grigio. Un mondo bigio che è trasformato nel nostro cervello “a colori” in marrone, ovviamente. Il marrone della terra, del fango, delle pozzanghere e degli escrementi è il colore di Arkanar. L’omogeneità cromatica non è, dunque, completamente tale, così come non è possibile parlare di eterogeneità. Contraddittoriamente, si è di fronte a un’eterogeneità omogenea o a un’omogeneità eterogenea. È un calderone all’interno del quale ribolle una zuppa contenente degli ingredienti difficilmente distinguibili, ma ancora con una forma propria.
Veder rimescolare questo intruglio in lunghissimi piani sequenza, terrorizzando ancor più il pubblico, è un’altra chiave per comprendere la riuscita del lavoro di German. Qui il montaggio non è più quello della tradizione sovietica, come scrive giustamente Théo Charrière sul sito Critikat. Si è di fronte ad un lavoro d’“implosione spaziale”.
“Per cogliere un fenomeno diretto d’implosione, German inventa, in qualche modo, una suite di quello che potremmo chiamare delle ‘esplosioni dall’interno’, ossia delle deflagrazioni quasi subite in utero. È come se ogni inquadratura partorisse da se stessa in se stessa.” (T.d.a)
È dunque difficile essere un dio, ma è altrettanto difficile essere lo spettatore di Hard to be a God.
Mattia