Denis Villeneuve: Sicario

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DENIS VILLENEUVE

Sicario

(USA 2015, 121 min., col., thriller/drammatico)

Abbiamo lasciato Denis Villeneuve con Prisonerse nel tempo trascorso il regista canadese ha confezionato due film: uno, inedito in Italia, Enemy -un thriller psicologico -, e un altro, Sicario, che ha goduto di maggiore visibilità grazie alla risonanza del festival di Cannes, e grazie a un proseguimento nei sentieri del più spettacolare public-friendly genere thriller, iniziato, appunto, con Prisoners. Se, stando alla critica, Enemy era un film scostante, tortuoso e malato, smaccatamente “d’autore”, Sicario è invece un film nel quale il regista può sfruttare una base di genere solida – sullo sfondo la guerra ai cartelli messicani della droga – per intavolare il proprio discorso cinematografico.

La piccola ombra di un aereo si muove attraverso l’angolo dello schermo, che riprende, widescreen, un deserto al confine tra Arizona, Texas e Messico: la “terra dei lupi”. Sicario è tutto giocato sul concetto di confine, confine geografico, politico, e (come si vedrà) cinematografico, e su come quel confine sia per natura indefinito. Il confine geografico, presto detto, è quello che separa gli Stati Uniti dal Messico; il confine politico è quello che separa la legalità dall’illegalità, ma soprattutto la civiltà dalla violenza.

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Il confine cinematografico è invece quel luogo artistico che Denis Villeneuve, più dei suoi film precedenti vuol sondare, percorrendo una strada appena battuta nella quale cinema di genere e cinema d’autore si confondono e si alimentano l’un l’altro; un film di genere che si riempie, attraverso i suoi personaggi, di connotati quasi dostoevskiani. Villeneuve, finalmente, incontra Mann: lascia parlare le immagini, utilizza sapientemente gli spazi, e, a differenza di Prisoners, elimina esagerazioni narrative, melò e digressioni, puntando dritto all’obiettivo. Risultato: un film – almeno registicamente – magnifico, con due o tre episodi da manuale di regia, per costruzione della scena e utilizzo di spazi e luce (qui rimandiamo al vero responsabile: il direttore della fotografia Roger Deakins.

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 Sicario vive in larga parte dei contrasti tra spazio vasto e indefinito (il deserto, naturalmente – ma anche le sterminate baraccopoli messicane) e luoghi chiusi: automobili, sale d’interrogatorio, botole e tunnel (importantissimi: basta prendere una strada differente del tunnel e ciò che prima era legale non lo è più).

Tra le pieghe di un thriller serrato, che non disdegna momenti di sospensione (torniamo a Mann), Villeneuve raffigura uno scenario in cui la lotta (una costante dei suoi film)  è uno stato costitutivo e permanente del mondo, circuito chiuso senza origine, e della quale poco viene spiegato: si viene catapultati, tramite gli occhi dell’agente interpretata da Emily Blunt, in un contesto nel quale si è già in partenza persa coscienza del perchè si lotta (a sostegno di questo, si sceglie di non raffigurare quasi mai i narcotrafficanti *); lo si fa e basta, come imprigionati in un loop. In questo loop l’agente idealista scopre di essere pedina di un gioco (e di una verità) che non è tenuta a sapere – perchè solo un ingranaggio della macchina. L’illusione di cambiare le cose è sistematicamente demolita e umiliata (lo splendido, nerissimo finale). Non è la polizia contro i cartelli, non è l’eliminazione o la limitazione del potere dei trafficanti di droga: è la lotta combattuta per ri-stabilire un equilibrio, volta allo scopo di eliminare gli elementi che sbilanciano questo equilibrio, che rimane comunque un equilibrio di lotta; questo è il loop di Sicario. E, se l’agente dell’FBI è l’osservatore, il Sicario (Del Toro) non può che esserne lo spietato esecutore.

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La definizione di un film del genere, drammatico, thriller e poliziesco, non può alla fine che risultare film di guerra a tutti gli effetti. L’attraversamento di un convoglio dal confine americano alla città di Juarez (sorta di girone dantesco che scorre dietro i finestrini di un 4×4), e l’ingresso nel tunnel di una squadra Delta Force ripresa in soggettiva con visore notturno, non sono solamente strepitose, ma riescono a scuotere inconsciamente le coscienze: mentre scorre il film  vengono in mente le immagini delle guerre d’Iraq e d’Afghanistan. Basti vedere il momento in cui l’agente protagonista viene fatta salire su un tetto per osservare i “fuochi d’artificio”: spari e bombe al crepuscolo, sorta di macabro festeggiamento, sorta di caos senza origine ammirato in lontananza. L’intento è tanto sotterraneo quanto efficace: prendere un contesto specifico ed estenderlo su scala più ampia.

* C’è di più: nella scena iniziale, durante un raid viene eliminato un uomo che aspetta da solo in una stanza vuota l’arrivo dei federali con un fucile puntato; dopo averlo ucciso, i federali si chiedono “era qui da solo, perchè l’ha fatto?”. Si è fatto semplicemente uccidere, insistendo così sull’assenza di senso generale.

Stefano