Myroslav Slaboshpytsikiy: The Tribe


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MYROSLAV SLABOSHPYTSKIY

 

THE TRIBE

 
(Ukr. 2014, 132 min., col., drammatico)

 

Un film per sordomuti e non. Senza sottotitoli per gli spettatori udenti. Nessuna parola, solo il rumore d’ambiente. Vibrazioni di violenza dura e cruda. The Tribe fa male: una rivelazione.

 

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In una scuola ucraina per sordomuti arriva un nuovo ragazzo, Sergej. Vittima prima di bullismo e poi arruolato da alcuni studenti nella cricca di stampo mafioso della scuola, il ragazzo s’innamora perdutamente di una sua coetanea.

Scritta in tal modo, la trama non promette nulla di buono. Si evince davvero poco o, meglio, non si nota nessuna originalità o tratto artistico degno di questo nome. Sembrerebbe ancora un classico film di violenza scolastica, d’amori adolescenziali, bullismo e quanto di più scontato ci possa essere. The Tribe, invece, capovolge la banalità rendendola spiazzante.

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Partiamo dal “linguaggio”. Un cartello iniziale, ci avvisa che la pellicola non sarà sottotitolata e che il linguaggio utilizzato è quello dei segni per sordomuti. Non si tratta però di un film solo per sordomuti, alla ricerca di compassione, d’aiuto o di denuncia per la difficile situazione in cui sono costrette a vivere queste persone. Myroslav Slaboshpytsikiy sarebbe potuto cadere in questo tranello cristianizzante avendo, tra l’altro, tutti i sensi perfettamente funzionanti (l’idea d’immedesimazione nella difficoltà, pensando così di cogliere tutto il disagio della persona con handicap è un principio molto occidentale), ma riesce a schivarlo andando oltre. Innanzitutto, non tutti i sordomuti capiscono quello che è espresso in The Tribe (avendo visto la pellicola in una sala riempita di sordomuti possiamo confermarlo): il linguaggio dei segni utilizzato è quello russo. Un sordomuto italiano non capisce quello che è detto. È come se guardassimo una pellicola russa senza i sottotitoli. Pertanto Myroslav Slaboshpytsikiy non realizza un film per sordomuti di stampo altruistico, ma una pellicola che va al di là del linguaggio verbale e dei segni. Lo spettatore capisce quello che vede perché la chiave della comprensione non è in ciò che è detto, ma in ciò che è visto. Adieu au language, ma questa volta per davvero. Quest’apertura non è una negazione del linguaggio, ma un andare oltre. The Tribe ti apre in due, ti sviscera, ti svuota permettendo di riempirti di novità. I dialoghi non devono essere compresi. Se si tenta di cogliere ogni singolo discorso, non si può capire il film. Bisogna fare tabula rasa e andare oltre le nostre abitudini. Il ruolo degli attori è quindi determinante. Essi devono farsi carico fisicamente della portata della pellicola, come nei vecchi film muti. I due protagonisti incarnano perfettamente la teatralità della visione. Si è in un’altra dimensione: quella del “silenzio”.

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Il “silenzio” è l’altra chiave del film. Un silenzio che non deriva solamente dai gesti, poc’anzi analizzato, ma dalla totalità della situazione filmica. Il silenzio trasforma la percezione dello spettatore, creando nuove esperienze estetiche. Infinite le sequenze nelle quali il fruitore diventa non udente, assaggiando la possibilità di nuove esperienze sensoriali: l’incidente con il camion, lo stupro o l’ultima interminabile e splendida sequenza. Il silenzio è in The Tribe associato alla violenza per mezzo del “freddo”. Il freddo invade tutto lo schermo: la fotografia, la stagione invernale, i colori e l’Ucraina dagli edifici post-comunisti. Anche il sesso è privo di quell’erotismo classico solitamente alimentato dai dettagli di nudo su parti non intime, su carezze, con una colonna sonora adeguata o sulla delicatezza del rapporto. The Tribe è vicino, in tal senso, a La vie d’Adèle. La crudezza di alcuni momenti, inoltre, nasce dall’impossibilità di urlare al mondo il dolore perpetuato. Per questo nell’istituto si può violentare una ragazza accanto a un’altra che sta dormendo senza che si svegli o allo stesso modo uccidere un coetaneo. In tal senso, la sequenza dell’aborto clandestino è esemplare. Un piano sequenza a cineprese fissa che non permette al fruitore di battere ciglio: un dolore infinito. Gli urli trattenuti della ragazza fanno da contraltare al silenzio disumano della donna che la fa abortire, nonostante questa sia priva del tutto di handicap. Il silenzio dei singoli individui non è, pertanto, l’unico presente nella pellicola. Il mutismo e la sordità sono metafora di una società che non vuole e non può sentire, né vuole e né può dire quello che risente. Si odono, non a caso, solo i rumori e i suoni dell’ambiente che rimbombano con forza nella mente dello spettatore.

 

Mattia