Clint Eastwood: American Sniper

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CLINT EASTWOOD

American Sniper

(Usa 2014, 132 min., col., drammatico)

 

Di American Sniper si è francamente già detto di tutto e di più. Cerchiamo piuttosto, con questa recensione fuori tempo massimo, di tirare le somme e concentrarci su alcuni degli aspetti che più ci stimolano: nel caso del film di Eastwood, riconosciamo subito alla pellicola quello che gli è dovuto, cioè soprattutto una rinnovata abilità del regista nel realizzare segni cinematografici memorabili, abilità che nella sua ultima fase sembrava essersi significativamente appannata. Tralasciamo quindi completamente il contorno del film. Ricordiamoci però che American Sniper è stato bersagliato già alla sua uscita lo scorso Dicembre quasi fosse l’opera di un vecchio fascista raggrinzito; e ora fa sfacelo ai botteghini statunitensi, mentre la critica adesso non solo modera i toni, ma sembra spesso cambiare opinione (le uscite sgangherate di Michael Moore non fanno testo). Al netto di questo contorno, ciò che rimane e che ci interessa, è un film solido e potente di un autore che sa esattamente cosa vuole e che sa come lo vuole mostrare, fregandosene, al limite, di chi potrebbe dargli del repubblicano guerrafondaio.

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Il film ci ha intrigato più del solito perchè questa volta Eastwood, di più e meglio di quanto stava nei suoi ultimi lavori, ha saputo coniugare le tematiche a lui care (il ruolo di “leggenda”, la responsabilità, individualismo/patriottismo) con uno sguardo affascinante ricco di segni e dettagli, che fanno di American Sniper un film da sviscerare e analizzare, nonostante la sua natura – e statura di film classico. Seguendo le vicende di Chris Kyle, infallibile cecchino americano stanziato in Iraq, non ci troviamo quindi di fronte ad uno scardinamento totale e disorientante del classico-western come avviene nel magnifico Lee Jones di The Homesman, ma ad una variante del classico, ad una sua forma diversa che potrà piacere o meno, ma che rappresenta senza dubbio un nuovo classico, un nuovo western: come viene detto nel film, le truppe combattono “in the new wild west of the old middle east”, così le case, le strade e i vicoli iracheni sono il nuovo terreno di scontro tra pistoleri, secondo un prospettiva inesorabilmente americana (e, a chi si indigna di questa prospettiva, sembrerebbe dire Eastwood: non vi sta bene? Pazienza). Quindi American Sniper è davvero un film orgogliosamente americano, che, smarcandosi da ogni presa di posizione – quindi da ogni discorso politico – sulla guerra, riesce tuttavia a rimanere sincero dalla prima all’ultima inquadratura, e soprattutto problematico, tutt’altro che ingenuo, nei confronti dell’idea dell’America e delle sue contraddizioni. Non poteva che essere così, in perfetta continuità con il pensiero del regista che proprio in Flags of Our Fathers esaminò il ruolo di “leggenda” per cui, partendo dall’apparato di edificazione del mito, e proseguendo nei modi in cui esso si abbatteva sulla vita vera dell’individuo (da qui il contrasto individualismo/patriottismo) che ne portava il peso, metteva in luce una logica tutta americana dell’usa-e-getta che tende a trasformare un individuo in leggenda per poi seppellirlo vivo quando smette di essere conveniente. Tematica questa che si riverbera lungo tutto il film, basti pensare alla macchinosa ripartizione della struttura (Casa-Missione-Casa-Missione-Casa-Missione), e al progressivo distacco di Kyle dalla “vita normale” americana, ormai irrecuperabile una volta testimoniata la “vita vera” e terribile del fronte bellico: è chiaro che a un certo punto Kyle diventa un uomo che si sente vivo solo con un fucile in mano e con un bersaglio nel mirino, incapace però di ritrovare sè stesso al ritorno a casa, al punto di cercarsi nello specchio di un televisore spento (proprio questo, un esempio degli strepitosi dettagli cui accennavo). L’impressione è quindi che American Sniper sia un film che dice una cosa (l’America è il miglior paese del mondo, bisogna allevare i cani pastori-soldati al fine di proteggere il gregge-cittadini dai lupi-terroristi) mostrandone un’altra (l’America dimentica presto i suoi eroi, i cani pastori-soldati a un certo punto non riescono più a integrarsi con il gregge-cittadini, ma si sentono vivi e utili solo se messi a confronto con i lupi-terroristi), centrando, paradossalmente, il suo obiettivo.

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L’americanismo di Eastwood è perciò quanto più di lontano dall’apologia dell’America si possa pensare. Certamente ammira, senza esagerati slanci d’orgoglio hollywoodiano (vedi il pessimo Fury) il cameratismo e il coraggio, d’altronde stiamo sempre parlando di western moderno e geograficamente traslato: non lascia dubbi l’origine western della lotta tra Kyle e un altro pistolero-cecchino durante la magnifica sequenza pre-finale, che riporta alla memoria il tipico “assedio del fortino”, in cui una tempesta di sabbia acceca letteralmente la vista allo spettatore mentre scoppia l’inferno; per non parlare del pre-finale in cui Kyle ha un distintivo da sceriffo (più chiaro di così). Ma l’America di Eastwood, il “paese migliore del mondo” (letterale dal film), è rappresentata, dall’esterno (il fronte) e dall’interno, con forme che possono apparire forse contradditorie e ambigue dal nostro punto di vista, a partire da quel “cattivo” (il guerrigliero-terrorista-selvaggio come si dice proprio nel film) che non si sa mai come, nè perchè, lo sia (diventato) ma che va sempre e comunque combattuto (il “male”), ma che sono perfettamente normali e coerenti dal punto di vista del suo autore. E’ un film di uomini e pistole, di fucili tramandati di padre in figlio, di insegnamenti di caccia, di una cultura che piaccia o meno esiste, e che Eastwood non ha paura di rappresentare. Una tale centralità delle armi in questo film, che persino la relazione con le donne e con il sesso ne hanno spesso a che fare: alla sua prima uccisione (un bambino con una granata in mano) Kyle riceve congratulazione per aver “perso la verginità”; la decisione di arruolarsi arriva con la notizia di attentati kamikaze alla TV, immediatamente dopo aver scoperto la sua ragazza tradirlo a letto con un altro; quando infine insegna a veterani a sparare, uno di loro dice “mi sembra di aver avuto le mie palle indietro”. Ma più di questi dettagli più o meno significativi, a sorreggere tutto è la classe ritrovata di un grande regista, che dimostra una virtuosità insperata tanto nelle scene di combattimento quanto in quelle più riflessive, forte d’un consolidato sovoir faire per il mantenimento della tensione e per la partecipazione umana, come raramente si sono visti nel cinema americano recente.

Stefano