Mario Martone: Il Giovane Favoloso


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MARIO MARTONE

Il Giovane Favoloso

(Italia 2014, 137 min., col., drammatico/biografico)

Il film italiano dell’anno è, in un certo senso, il contro-campo di Noi Credevamo. L’annunciato biopic su Giacomo Leopardi si pone come un’opera meno articolata e più omogenea del precedente capolavoro di Martone. Il principale merito del film è quello di restituire una figura di Leopardi finalmente umana e ripulita dalla polverosa memoria dei nostri banchi di scuola. Di rappresentare Giacomo prima di Leopardi, e attraverso momenti di grande cinema: perchè anche ne Il Giovane Favoloso ritroviamo la caratteristica più significativa del cinema di Martone, cioè la contaminazione del mezzo cinematografico con altre forme d’arte:. Letteratura ovviamente, ma anche pittura, scultura, musica e, soprattutto, teatro. Proprio attraverso il teatro il regista napoletano aveva incontrato Leopardi mettendone in scena le Operette Morali; con impostazione teatrale era strutturato Noi Credevamo e un approccio simile troviamo anche ne Il Giovane Favoloso.

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Una impostazione evidente a partire dalla messa in scena, costruita in splendidi quadri all’interno dei quali far vivere i propri personaggi, ponendo l’attenzione quindi, con cura minuziosa, a scenografie e a costumi, mettendo in risalto gli interni come fondali di palcoscenico, e riprendendo gli esterni nella loro realtà presente (chi si ricorda gli stralci di architettura contemporanea che irrompevano in Noi Credevamo?), quindi non come ricostruzioni di studio ma come luoghi davvero vitali e palpitanti, perchè pieni di passato; e ponendo attenzione all’azione, ai volti e ai i gesti più che alle declamazioni, per le quali il tono adottato è sì quello del melodramma, ma mantenuto rigorosamente su toni medi (con l’unica eccezione della scena in cui Giacomo viene rimproverato e, in una splendida sequenza, con il giusto alternarsi di luci caricate e inquadrature oblique, avviene finalmente uno sfogo – ma solo interiore); e attraverso soprattutto una regia che sceglie coraggiosamente di alternare il controllo della ricostruzione storica e biografica alla sperimentazione, affrontando diversi registri e quindi evitando il pericolo d’appiattimento, anche grazie ad una colonna sonora che cambia ugualmente registro nel suo essere, inaspettatamente, anche elettronica. E’ ancora Martone un regista italiano che realizza pellicole sul proprio paese senza mai apparire retorico, rifuggendo innanzitutto dai luoghi comuni, e cercando successivamente un approccio che sia il più possibile originale e problematico (quindi mai semplicemente descrittivo, o peggio didascalico) alle vicende che decide di raccontare ed esplorare. Perchè è vero che Il Giovane Favoloso è meno incisivo di Noi Credevamo, per il suo gravitare incessantemente intorno al suo protagonista, ma è anche vero che, per quanto non rinunci mai alla sua natura di film biografico, esso si accosta con scioltezza al precedente per l’incisività con cui mette in mostra le contraddizioni del periodo pre-risorgimentale. Ma cosa distingue, e cosa eleva davvero questo film al di sopra del nostro cinema medio? Non tanto il controllo della materia narrata (che spesso denuncia rallentamenti e cali di ritmo, senza però appiattirsi – ripetiamo – mai), ma l’ambizione di superare sè stesso, oltre che un’attenzione rara (nel nostro cinema) per i dettagli.

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Va da sè che questa impostazione determina anche la struttura e l’andamento della pellicola, non più rigidamente suddivisa in atti/capitoli, anzi estesa linearmente per la necessità di adattarsi alla materia biografica, restando, tuttavia, puntellata da divisioni nette, siano esse geografiche (Recanati – Firenze – Roma – Napoli), temporali (distanziate da ellissi che coprono decenni), o artistiche, nelle quali, cioè, ognuna rappresenta (o meglio, evoca) la genesi delle opere più famose del poeta. Se ci fossero titoli in Il Giovane Favoloso, come ce n’erano in Noi Credevamo, sarebbero L’Infinito, Dialogo della Natura e di un Islandese, e La Ginestra. Ed è nei momenti in cui vengono esse recitate da Elio Germano che Martone s’ispira e ispira a sua volta; sono i momenti in cui alla impostazione teatrale della messa in scena, e ai lunghi e frequenti dialoghi, si sostituisce qualcosa di più astratto, di più puramente cinematografico. Nell’Infinito, un Giacomo ancora imprigionato nella casa-biblioteca di Recanati cerca riposo e solitudine sul proverbiale ermo colle; sul quale, scrutando l’orizzonte, l’ancor giovane poeta non solo sembra desiderare il superamento del limite, sia esso dettato dal fisico o dalle istituzioni che lo vorrebbero prete (e quindi omologato e “sistemato”, inserito nella normalità istituzionale ed ecclesiastica dell’epoca), ma in effetti superarlo per davvero, con la forza del pensiero, dell’immaginazione. Ed evocazioni sempre più suggestive si ripercorrono incarnate ad esempio nella Natura del Dialogo della Natura e di un Islandese qui rappresentata come donna/totem imperscrutabile, e raggiungendo l’apice in un finale di ampissimo respiro, nel quale dall’interno della terra, tra le colate di lava del Vesuvio saliamo, saliamo fino alle stelle, scrutando il cosmo sui versi della Ginestra. Cosa si può volere di più dal cinema?

Stefano

  • Manuela Bonci

    Ho apprezzato in maniera particolare la fotografia. Una pellicola ricca dal punto di vista del dettaglio panoramico. A volte, non ho avvertito grande sintonia però con gli intervalli entro i quali le poesie erano stati calati.