Mostra del Cinema di Venezia: 30 Agosto
CONCORSO – Francesco Munzi: Anime Nere
Con Il Resto della Notte Francesco Munzi aveva dimostrato come si potesse iniettare con successo una dose massiccia di “genere”, il noir sopra tutti, all’interno del film italiano a “tematica sociale”, sollevando e nobilitando questo tipo di cinema al di sopra dei bassi standard paratelevisivi a cui siamo tristemente abituati. Tutti quelli che rimproverano qui il film di non dire niente di nuovo e di non approfondire l’argomento-mafia devono capire che Munzi non ne vuol sapere di mettere in scena alcuna inchiesta-denuncia edificante che faccia discutere e riflettere, e che invece punta a realizzare cinema, grande cinema, che preferisce giocare sull’atmosfera e sulla suggestione, lasciando in secondo piano gli intrecci della trama e “l’argomento mafia”: noi tifiamo Munzi perchè regista completamente cinematografico, che fa cinema per il gusto e la grandezza del cinema, e non per dire obbligatoriamente “qualcosa di nuovo”. Per questo il film Anime Nere è ad oggi, almeno per chi scrive, e con buona pace per i detrattori, il vero film della mostra. Preferirò mille volte un film “già visto” che mi scava dentro immagini come Anime Nere a qualsiasi film “da dibattito” che pretende di rivelare grandi verità: sono al Lido di Venezia per godere il cinema, non per pontificare con quanta accuratezza si parli di mafia al suo interno. Anime Nere parla di mafia sì, ma soprattutto dell’impossibilità di rompere i vincoli familiari: il finale non lasci dubbi sulle sue intenzioni, e riverbera per parecchio tempo dopo il suo tremendo, inaspettato compiersi. Che dire della natura arcaica calabrese, della scioltezza con cui viene messa in contrasto con gli scenari industrializzati di Amsterdam e Milano, del noir puro che fonda la struttura, dell’evoluzione progressiva in tragedia (di stampo quasi classico), delle musiche che vanno dal ronzio minimale alla tradizione rurale, della tensione tellurica che precede ogni squarcio di violenza (spesso non mostrata direttamente, lasciata – psicologicamente – fuori campo)? Signori critici e giornalisti fate il vostro lavoro, recensite ciò che vedete sullo schermo, non quello che avrebbe potuto esserci o avreste voluto vedere. E che si tratti di un grande film, ciò è già evidente sullo schermo.
Stefano
CONCORSO – Ramin Bahrini: 99 Homes
Uscendo dalla sala i commenti solitamente si sprecano: “bel film!”, “brutto film”. Rimanendo su questo livello di analisi, si può sostenere che 99 Homes è un film senza pregi e senza difetti: è un film normale, corretto, che lascia lo spettatore senza commenti negativi e senza commenti positivi. È una pellicola classica, che scorre liscia come l’olio, senza intoppi. Costruita intorno al processo di redenzione americano, la pellicola di Ramin Bahrani si sviluppa intorno a canoni visti e rivisti. Il tutto, insomma, segue un’evoluzione classica: dapprima la difficoltà iniziale, poi il riscatto illegale, la successiva fama, la gloria, in seguito il rimorso logoratore e, infine, l’agognata redenzione. Già visto.
Mattia
ORIZZONTI – Josh & Benny Safdie: Heaven Knows What
Ci intrigava, di questo film americano, l’approccio stimolante e risoluto, mirato a dimostrare come sia possibile sconfinare il documentario nella finzione e viceversa. Possiamo affermare che l’esperimento è riuscito: la protagonista, vera senzatetto incontrata dai registi che sopravvive tra elemosine e piccoli furti, viene inserita in questa fiction imperniata su una storia d’amore, drogata e malata, ma anche lirica; è quindi raggiunto lo scopo di abbattere le barriere che separano la verità e l’artificio. Heaven Knows What disturba perchè, rifiutando soluzioni rassicuranti, favorisce un’inquadramento della realtà (la lotta quotidiana per procurarsi una dose, nè più, nè meno) estraneo ad ogni forma di edulcorazione. Non c’è morale, nè giudizio, il piglio è documentaristico con sprazzi di sogno e magia; a spingere sul pedale della sperimentazione (quindi di coerenza da una parte, e di repulsione dello spettatore – abituato all’happy ending – dall’altra) ci sono la musica opprimente e ossessiva, e le pulsioni della droga rese con eloquenti effetti scenici. Le ambizioni sono state appagate in un film difficile ma innegabilmente crudo, interessante.
Stefano
SETTIMANA DELLA CRITICA – Stephane Demoustier: Terre Battute
Capitati in sala quasi per caso (il film che volevamo vedere aveva una coda infinita e la sala era già intasata di essere umani), Terre battue è stato un brutto scherzo del destino. Prodotto dai fratelli Dardenne, il film tenta in tutti i modi di far coniugare vita, famiglia e sport rendendo prevedibile ogni singolo istante. Che cosa chiedere di più? Un tentativo di avvelenamento sportivo. No comment.
Mattia
GIORNATE DEGLI AUTORI – Christophe Honorè: Metamorphoses
Ci sarebbe molto da dire su questo film e uno studio approfondito sarebbe adeguato all’opera di Christophe Honoré. Il cambiamento, il cangiante, la mutazione e la metamorfosi irrorano tutta la pellicola di un’aurea mitica. Un film diverso per un pubblico diverso. I pochi rimasti in sala, gli ultimi sopravvissuti, hanno potuto cogliere la vera arte cinematografica. Muta la natura che si trasforma in città, muta la città che diventa natura; muta l’umano per divenire animale, muta l’animale per cambiarsi in uomo. Ovidio cantava le metamorfosi degli dei, Honoré quelli dell’adolescenza in maniera impeccabile. Visionario della creazione, il susseguirsi di sequenze allucinatorie ed estetiche sono una manna per il cinefilo che può cogliere la trasformazione di Europa tramite le metafore mitiche e della vita. Intenso.
Mattia
CONCORSO – David Oelhoffen: Loin des Hommes
Lontano dagli uomini. Il protagonista del film di Oelhoffen inspirato da un’opera di Camus è lontano dagli uomini che abitano l’Algeria nel 1954. Lontano dai francesi. Lontano dagli algerini. Solo con i suoi studenti sulle montagne algerine. Un eremita per scelta, come per scelta decide di aiutare un giovane quasi condannato a morte a raggiungere il luogo del giudizio. Un’odissea in una terra in balia delle intemperie e della guerra franco-algerina. Non è un vigliacco, non decide di non schierarsi per comodità. La sua è una scelta, un tentativo di estrapolarsi dal flusso storico e prammatico. Ottima la fotografia, in grado di far assaggiare allo spettatore l’inverno algerino (anche se in realtà, la pellicola è stata girata in Marocco). Colonna sonora di Nick Cave.
Mattia
FUORI CONCORSO – Barry Levinson: The Humbling
Una delle possibilità offerte dalla Mostra è quella di assistere ad una proiezione insieme ai realizzatori di una pellicola. In questo caso il lusso è stato vedere un film insieme al gigante Al Pacino. Peccato che in questo caso il film presentato non fosse all’altezza dell’interprete. Già presente alla Mostra in concorso con Manglehorn (film che, date le premesse e il regista – David Gordon Green – abbiamo evitato come la peste), in The Humbling, Al Pacino è un attore teatrale in crisi da esaurimento nervoso. Ecco, se consideriamo impersonare uno stato di rimbambimento senile per 120 minuti consecutivi una vetta attoriale, Al Pacino meriterebbe un Oscar per questo film. Ma la colpa non è neanche tutta sua: sarà l’ipertrofia derivata da un romanzo di Philip Roth, che portare sullo schermo rasenta l’inattuabilità (tutti i precedenti tentativi di mettere in scena Roth sono falliti, è ora di farsene una ragione), sarà che la regia raffazzonatissima e tirata per i capelli (Levinson è un veterano, ma sembra alle prime armi), sarà Greta Gerwig fuori parte che odiamo dopo pochi minuti, sarà la fotografia random che cambia di scena in scena nella stessa ambientazione, ma questo film non ci comunica proprio nulla eccetto la conferma del crepuscolo della carriera di un grande attore, sullo schermo e, purtroppo, anche fuori.
Stefano
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