Jonathan Glazer: Under the Skin
JONATHAN GLAZER
UNDER THE SKIN
(GB 2014, 108 min., col., fantascienza)
Un essere si dispiega sulla Terra a caccia di uomini, come un cacciatore alla ricerca della selvaggina.
Under the Skin è un film importante. Il lavoro di Glazer è uno di quelli che lasciano il segno e che delineano la storia artistica del cinema. Noto ai più per i suoi caratteristici videoclip, il regista esplora le paure umane senza commentarle. Le didascalie o i saggi ridondanti ed esplicativi di chi vuole (anche cinematograficamente) spiegare l’uomo, la sua psiche e il suo mondo sono, per Glazer, carta straccia.
I Cineuforici riassumono Under the Skin con la parola “silenzioso”. Il silenzio è il motore della pellicola, nonché il film stesso nelle sue innumerevoli sfaccettature. Il concetto di silenzio non deve essere inteso solo come “privazione” di qualcosa, ma come variazione della “presenza” di tale cosa. Il silenzio, insomma, non è il contrario della loquacità vocale, narrativa o attoriale, ma una sua declinazione. Esso è un aspetto di questa. Chiarifichiamo il tutto.
Silenzio vocale
Già dall’incipit, con la pregnante immagine dell’occhio, Glazer vuole posizionare la sua opera sotto i riflettori della visione: il film deve essere “visto”. La visione proposta dal regista è una fruizione ipnotica, non casereccia o distratta. Guardando un occhio che osserva, egli avvisa lo spettatore che si percepirà qualcosa di visivo e che colpirà, pertanto, uno dei cinque sensi in particolare. Non bisogna, infatti, udire la vicenda (o toccarla, o odorarla o gustarla evidentemente), ma bisogna guardarla. I dialoghi sono rarefatti; i pochi che sono pronunciati sono spesso incomprensibili (si aggiunga il forte accento scozzese) e finti. Quando gli uomini salgono nel furgone, ad esempio, si esprimono banalmente e la creatura risponde di conseguenza. Da questo punto di vista il silenzio è il padrone su entrambi i fronti: i dialoghi sono rarefatti (primo silenzio) e, quando sono presenti, sono privi di sostanza (secondo silenzio, ossia un silenzio contenutistico). Ancora: la colonna sonora è “priva” di certi sfarzi che devono accompagnare a tutti i costi alcune pellicole per dare senso alla visione; in Under the Skin la colonna sonora è “silenziosa” (ma non vuol dire che non c’è, anzi): essa è ridotta all’essenza e combacia perfettamente, come si vedrà, con l’estetica di Glazer.
Silenzio narrativo
Quello che si vede durante la proiezione, potrebbe essere raccontato anche in dieci minuti. Il ragno Scarlett Johansson tesse la tela nella quale finiscono le sue mosche: i maschi umani. Questa sorta di cannibalismo erotico, è giustificato dalla natura della protagonista: è un’aliena. Un cortometraggio riuscirebbe benissimo a esprimere il romanzo Michel Faber ma Glazer diluisce la vicenda permettendo di rallentare i ritmi e ponendo la narrazione in opzione “silenziosa”. In tale maniera l’evoluzione del racconto si ferma e, atemporalmente, si dilata all’interno della psiche dell’alieno. È come se fosse possibile far nascere il silenzio allungando i tempi del rumore, della loquacità e dell’azione (e dell’estetica). Da un romanzo del genere sarebbe stato possibile creare un cortometraggio di fantascienza, pieno d’azione e di ritmo incalzante. La durata effettiva del film, invece, diluisce la narrazione senza annacquarla, rendendola “silenziosa”. Questo procedimento emerge, come si accennava, dal lavoro effettuato sulla psiche del personaggio. Glazer, infatti, riesce a mostrare le riflessioni dell’alieno senza alcuna parola o spiegazione didascalica (silenzio vocale), ma tramite la visione. Si vede l’alieno entrare in crisi: la natura e il corpo umano sono molto più complicati di quanto forse si aspettava (si veda la sequenza del rapporto sessuale o del tentativo di stupro). La grandiosità del film risiede proprio in questo punto: evitando una melliflua e mielosa storia d’amore, Glazer mostra questo sentimento senza parlarne. L’amore è silenzioso, solo visivo. La narrazione è silenziosa, ciò che si deve vedere è visto. La Joahnsonn, tra l’altro, si prende il lusso di regalare una grande interpretazione. I suoi sguardi sono “frenati”, così come le sue seduzioni, i suoi rapporti, i suoi dialoghi. Attrice sulla bocca di tutti, qui esprime se stessa come mai prima: è silenziosa come il film. Le sue labbra sembrano voler enunciare la verità della sua psiche ma Glazer la frena. Questo trattenimento, questo frenaggio, autore del silenzio, è un’altra chiave per apprezzare la pellicola. Under the Skin potrebbe dire molto di più, ma fortunatamente “dice” poco lasciando la visione in un limbo di desiderio e seduzione cinematografica.
Silenzio estetico: nero
Questo silenzio, allora, è anche estetico. Non “solo”, “anche” estetico (a differenza di ciò che dicono i detrattori del film). Il frenaggio narrativo, fa emergere un rallentamento estetico, un silenzio che diventa successivamente estatico. L’alieno lascia nel desiderio le sue vittime, come Glazer lascia lo spettatore. La prigione nera in cui cadono gli umani, è la prigione del pubblico ridotto a non vedere più nulla (silenzio visivo). Il nero assorbe la luce. Il nero, sembra dirci Glazer, non è il contrario del bianco, ma una sua sfaccettatura, un tipo di bianco che assorbe più luce degli altri. Sotto la pelle degli umani non c’è più nulla (davvero scioccante la sequenza del “palloncino” umano), dietro al pianto del bambino non c’è spiegazione necessaria, dietro alla deformità del ragazzo (strizzatina d’occhio a Lynch) non c’è compassione o pietà che tengano (l’alieno non vede differenza): l’uomo è uomo, è pelle, è superficie. Il liquido nero (che va di pari passo alla fluidità del movimento di macchina) è ciò che sta sotto la pelle del mondo, ossia nulla: il silenzio. Ancora una volta, questa privazione di “cosa” non è la negazione della “cosa” stessa, ma una sua declinazione. Se allora ciò che si vede è la superficie, e il contenuto non può essere ammirato, bisogna godere di essa come tale, apprezzare il fatto di non sapere cosa risiede under the skin. Il silenzio di cui sopra, il nero della trappola dell’aliena, il nero del suo “vero” corpo, l’ignoranza degli attori che sembrano non sapere di essere filmati (un altro tipo silenzio) e, infine, il nero riflettente della scenografia e della fotografia, non sono altro che l’amore per il non spiegato, per il dubbio, per quel “lasciar lì”, per l’intuizione che incita la visione.
La via tracciata da Glazer è questa: prendere o lasciare.
Mattia Giannone
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