Nuri Bilge Ceylan: Winter Sleep

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NURI BILGE CEYLAN

Winter Sleep

(Kis Uykusu, Turchia 2014, 196 min., col., drammatico)

Con la Palma d’Oro a Winter Sleep, Cannes consacra Nuri Bilge Ceylan, ma soprattutto celebra sè stesso.

Ceylan, che a mani basse può a questo punto ambire al titolo di (uno dei) massimi cineasti contemporanei, deve tanto al festival francese che per gran parte della sua carriera l’ha sostenuto mettendolo, non senza meriti, nella giusta luce. Prima del Gran Prix Speciale assegnatogli con C’Era una Volta in Anatolia, il regista turco aveva partecipato altre 3 volte alla rassegna internazionale. Scontato, quindi, che a un protetto del festival sarebbe stato assegnato prima o poi un riconoscimento importante. Meritato? Ancora una volta, sì. Eppure. Eppure in Winter Sleep, film grandioso della durata di 3 ore e 20 minuti, abbiamo notato se non un passo indietro, sicuramente una modifica più o meno drastica nel modo di far cinema di Ceylan. E qui si potrebbe discutere per ore ipotizzando che si possa trattare di una svolta importante, di un passo falso o di un’opera di transizione, senza andare a parare da nessuna parte. Perchè, a differenza di quanto detto recentemente per Cronenberg, per il quale è impossibile valutare la sua ultima pellicola senza considerarla all’interno di un continuum cinematografico, per Ceylan vale l’opposto. Se consideriamo l’opera come isolata genera un effetto, se la guardiamo da un’altra angolazione, ovvero all’interno del percorso di Ceylan, l’effetto è molto differente, e, lo diciamo? non così positivo, almeno per noi.

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Veniamo a qualche dato obiettivo: Winter Sleep è senza margine di dubbio un film dall’impostazione classica. Focalizzandoci strettamente sui contenuti, rileviamo una continuazione del discorso iniziato (continuato?) in C’Era Una Volta in Anatolia; quindi in linea di massima: la caducità della vita, la ricerca dell’identità (anche nazionale, Turca), l’incomunicabilità generata da differenze sociali, di genere e di età. In Winter Sleep un vecchio attore si ritira in Cappadocia per gestire un hotel con la giovane moglie, mentre arriva l’inverno. Un inverno (ma va?) metaforico, che subentra nella vita del protagonista. Un film dunque sul tempo, ma non sulla memoria: non è la nostalgia o la malinconia a guidare il film, ma l’angoscia del presente, la realizzazione di stare sprofondando; Winter Sleep parla di un uomo che realizza di non essere (intellettualmente/mentalmente, prima che fisicamente) indistruttibile, e rappresenta magistralmente una delle caratteristiche insetricabili dell’Uomo: il suo essere fallibile. Inseguendo assiduamente questo tema che ricorda da vicino il cinema di Bergman, Ceylan si è costruito una intera carriera e con Winter Sleep mette il punto alla questione. Questa questione, universale, assume ulteriore importanza nella confusa identità nazionale turca che già era il sale di C’Era una Volta in Anatolia, che a tutti gli effetti la critica ha interpretato come metafora della Turchia contemporanea sospesa tra tradizione e progresso. E ancora una volta, Cannes si dimostra festival che mira all’attualità (politicizzato?), che dopo aver premiato La Vie D’Adele durante le manifestazioni contro i diritti gay a Parigi premia un film turco non molto dopo i moti di protesta contro Erdogan (il regista ha dedicato il suo premio “a tutti i giovani turchi, inclusi quelli che hanno perso la loro vita l’anno passato”). L’efficacia con cui Ceylan affronta questi argomenti lascia senza parole.

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Questi aspetti sono solo una parte di quello che è il discorso Ceyliano. Approfondire è di dovere, e occorre avere un minimo di conoscenze umanistiche, filosofiche e soprattutto letterarie (difficile cogliere tutte le citazioni del film) per apprezzarlo appieno. Veniamo, però, al discorso cinema: non è che Winter Sleep ci abbia meravigliato come C’Era una volta in Anatolia. Il paragone è presto fatto: C’Era una Volta in Anatolia era un film di inquadratura, esterni e silenzi; Winter Sleep è un film di scrittura, interni e dialoghi. In C’Era una Volta in Anatolia (che abbiamo amato moltissimo) Ceylan riusciva a generare senso (se non quello, almeno suggestione “riflessiva”) facendo rotolare una mela in un ruscello. In Winter Sleep, apprezziamo la forza dei dialoghi ma tendiamo a stancarci dopo 20 minuti di campo e controcampo, e non c’è straordinaria fotografia che tenga in confronto ai fari che tagliavano la notte di C’Era una Volta in Anatolia. E nessuna scena in Winter Sleep si avvicina al sublime di quella giovane donna che tagliava l’oscurità illuminata da una sola candela. Dov’è l’evocazione? Dov’è il mistero? La costruzione drammaturgica ha sempre il sopravvento sulla purezza cinematografica; non che manchino sequenze strepitose anche qui (scene con i cavalli, paesaggi lunari ecc.), ma comunque l’urgenza di dire sembra continuamente sovrastare quella di mostrare. Winter Sleep riesce a portare sullo schermo il fascino di un grande romanzo, ma proprio quelle parole di cui è infarcito il film ci tengono con i piedi per terra, ci impediscono di sognare, perderci, affascinarci come Ceylan ha dimostrato di saper fare in passato.

Chiedo scusa per la banalizzazione, ma non saprei in che altro modo esprimermi: assegnando questa Palma mi sembra che Cannes abbia proprio espresso “Questo è Nuri Bilge Ceylan, l’abbiamo scoperto noi: guardate che film ha fatto, se è arrivato dov’è è anche per merito nostro”.

Stefano