Daniel Wolfe: Catch Me Daddy

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DANIEL WOLFE

Catch Me Daddy

(UK 2014, 107 min., col., drammatico)

Visto in occasione della rassegna “Cannes e dintorni”

Difficilmente avremmo scelto di affrontare Daniel Wolfe se non avessimo prima visto uno dei suoi lavori, Time To Dance, forse uno dei più bei videoclip degli ultimi anni, gioiellino che in soli 8 minuti racchiude il potere suggestivo di un lungometraggio. Tanta dunque la curiosità quando abbiamo individuato il suo film d’esordio nella lista della Quinzaine des Realisateurs. Wolfe porta sullo schermo la storia di una coppia di ragazzi, una pakistana e un inglese, in fuga dal padre di lei, capo mafioso della zona, dal quale la ragazza è scappata perchè riluttante a conformarsi alle regole del “clan”; ad aiutarli (siamo sicuri?) uno degli uomini incaricati di rapire la ragazza, tossicodipendente che porta con sè la foto di una figlia scomparsa. il regista quindi intraprende la strada delicata dell’integrazione multiculturale e dei suoi paradossi.

E’ impossibile in Catch Me Daddy non riconoscere ricorrenze e aspetti analoghi ai videoclip del regista britannico all’interno della pellicola. Il paesaggio: il nord-est collinare britannico, brughiere che separano agglomerati degradati nello Yorkshire più profondo, roulotte case mobili parrucchieri club e fast food; l’ambiente, degradato sfondo di spaccio e piccoli crimini; lo stile: fortemente votato al realismo, con scoppi di violenza mai compiaciuti, prioritario utilizzo della steadycam, inquadrature attaccate ai personaggi, fotografia curatissima (è di Robbie Ryan, il più grande direttore della fotografia britannico, con un curriculum impressionante), componente musicale marcata e perlopiù diegetica. Caratteristiche presenti nel videoclip di riferimento, che però era ambientato in un quartiere urbano-londinese (ugualmente degradato).

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La sequenza iniziale promette benissimo: sono ritratti momenti quotidiani dei due amanti in una roulotte in mezzo al nulla, in un paesaggio che è come un magico santuario. Il montaggio frammentato e l’attenzione ai particolari fanno pensare a un novello Malick, mentre tutto è avvolto da una luce grigia, plumbea, fumosa (chi ha visto il recente Wuthering Heights illuminato dallo stesso direttore della fotografia, sa di cosa parlo)  che è come un manto protettivo invisibile, che viene infranto con l’incedere della notte. La sensazione è quella di una fiaba dei bassifondi, che diventa un incubo secondo dopo secondo. Perchè, dopo questo incipit rilassato, all’arrivo dei sicari del padre della ragazza, il film si tende come la corda di un violino e non molla più, raggiungendo il suo picco di tensione proprio alla conclusione aperta (ritorna in mente il finale di Killer Joe). Peccato che, a un certo punto, si avverta la sensazione che il regista rimanga alla lunga imbrigliato dalla trama, a scapito del potere suggestivo potenziale della prima parte; e come risultato sembra che improvvisamente la trama gli sfugga di mano. Ma il difetto peggiore è che Catch Me Daddy risulta nettamente derivativo da Time to Dance: Molte delle sequenze (quella nel fast food, gli omicidi, la scena del club-discoteca) sembrano direttamente prese da ciò che Wolfe ha realizzato con Jake Gyllenhall nel video degli Shoes, come se si volesse aggrappare a quello che gli è riuscito bene in passato, non permettendo all’insieme di prendere il volo.

Ma questi sono il genere di errori (più che errori, tentennamenti) che si concedono all’opera di debutto. Sospetto che verrà il momento in cui torneremo a parlare di un film eccezionale che porta la firma di Daniel Wolfe.

Stefano