Ari Folman: The Congress


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ARI FOLMAN

 

THE CONGRESS

 
(Usa 2013, 122 min., col., fantascienza, animazione)

Ora basta. È un argomento alla moda, sulla bocca di tutti e che riempie pagine e pagine di parole, ma non se ne può più. Ora che si è preso atto della morte del cinema come si è inteso finora, non si può guardare oltre? Non si mette in dubbio la difficoltà di voltare pagina, ma è necessario compiere questo gesto. The Congress di Ari Folman, invece, piange (di nuovo) sul latte versato.

Robin Wright è in crisi lavorativa. Non riesce più ad avere un contratto come attrice, anche per i suoi continui rifiuti. Preferisce rimanere a casa a occuparsi dei suoi figli, di cui uno disabile. Un giorno il suo agente gli propone l’ultima offerta disponibile della casa di produzione Miramount: essere scannerizzata per continuare a recitare digitalmente all’infinito. Dopo vent’anni, l’operazione di sostituzione attoriale, ha preso pieghe impreviste.

D’accordo che siamo in un’epoca di grande trasformazione cinematografica, in cui nulla è e sarà più come prima, dove il ruolo

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dell’attore, del cinema e del mezzo cinematografico cambierà per sempre, ma in questo periodo l’autoriflessione sta prendendo pieghe ridicole e patetiche. Saremo monomaniaci, tutto quello che volete, ma ogni film che cita il mezzo cinematografico deve passare sul corpo di Holy Motors. Non c’è scampo. Inutile ripeterlo all’infinito, ma la pellicola di Leos Carax è allo stesso tempo riflessione sulla morte del cinema, punto di arrivo della settima arte e punto di partenza per una nuova concezione cinematografica. The Congress, invece, affronta il medesimo tema con i mezzi della concezione cinematografica precedente: la messa a nudo non è altro che un nuovo vestito.

Lasciamo da parte Holy Motors, vera e propria rosa dei venti per questo secolo cinematografico, e concentriamoci sul lavoro di Ari Folman.

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Il tutto inizia con una critica al mondo cinematografico moderno e sulla continua reificazione degli attori: essi diventano oggetti, mezzi per arrivare a un fine di stampo economico. Già visto ed è sempre stato così (addirittura già la morale kantiana prendeva le distanze da una concezione umana come mezzo per arrivare a determinati scopi).

 

The Congress prosegue con una riflessione sull’emozione attoriale. Robin Wirght, durante la scannerizzazione del proprio corpo non riesce a fingere determinate emozioni. Solo il suo agente, raccontando una storia improbabile riescirà a farla ridere e piangere “naturalmente”. Interessante. Peccato che questa sequenza sia proposta allo spettatore con una musichetta “strappalacrime” e con un monologo rivelativo improponibile e furbo: esso perpetua la fine di un certo cinema, utilizzando gli stessi mezzi. Non per tornare ad Holy Motors, ma Carax fa dire a Monsieur Oscar la famosa frase: “Je continue comme j’ai commencé, pour la beauté du geste”. Questo basta per esprimere il medesimo concetto.

Se questa prima parte è già discutibile in sé, la seconda parte animata è davvero sconcertante. Con un salto temporale di vent’anni

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(?), Wright partecipa a un congresso animato (nel vero senso della parola) per un futuro in cui non solo si può essere un attore inalando una semplice fiala, ma addirittura si diventerà sorseggiando un Milk Shake al gusto “Wright”. Con sbalzi temporali privi di senso, Folman mostra una Robin Wright animata in cerca di suo figlio disabile mentre l’allucinazione generale diventa la realtà. Chiara critica alla società contemporanea e al mondo virtuale, dell’incomunicabilità, dell’apparenza, dei socials networks e via dicendo, ma anche in tal caso il regista non propone una via d’uscita. L’autoflagellazione di Wright (ooops, spoiler!) nel voler tornare nel mondo allucinato per stare col figlio, al posto di rimanere nella “verità” è tutt’altro che sorprendente ed è preannunciato dalla solita musichetta fittizia (viene in mente il personaggio di Christof in The Truman Show che crea ad hoc le musiche per suscitare pathos nello spettatore). Non è una vera e propria soluzione. Tra l’altro qual è il problema? Ogni momento culturale e storico è figlio di una difficoltà. Sembra che per il regista l’epoca contemporanea sia l’unica ad avere dei problemi. Suvvia, un po’ di apertura e lungimiranza.

A nostro avviso, passare da un momento cinematografico all’altro o evidenziare questo passaggio (anche se ormai si tratta di una routine più che di una novità) non deve essere fatto ripensando al passato nostalgicamente o biasimando il tempo corrente. Alcuni autori l’hanno capito altri no: pazienza.

Mattia Giannone