Abel Ferrara: Welcome to New York

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ABEL FERRARA

Welcome to New York

(Usa/Francia 2014, 124 min., col., drammatico)

E’ bello, dopo tante visioni dimenticabili, tornare a respirare vero cinema, seppur non all’interno di una sala cinematografica: tanta è stata l’attenzione  rivolta all’ultimo film di Ferrara, e non solo per le ovvie implicazioni scandalistiche che l’hanno accompagnato, quanto per le circostanze di distribuzione nelle quali il film è stato lanciato e distribuito, cioè esclusivamente in rete in concomitanza del festival di Cannes, che avrà avuto il torto di non presentare questo ottimo film in rassegna, ma certamente anche il pregio di amplificare e convogliare l’attenzione com’è suo dovere, come farebbe cioè una cassa di risonanza.

Le polemiche, come quest’anno per Nymphomaniac, servono come  mangime per polli (per sfamare cioè giornalisti sempre pronti a giudicare ma indisposti quando un film richiede una maggiore analisi) e non hanno alcun motivo di interesse se non di alimentare la discussione su un film che vuol essere controverso fin dalle premesse. Ispirandosi allo scandalo Strauss-Khan, il regista newyorkese rivanga una vicenda ancora fresca, ancora non digerita, e, più di tutto, ancora non chiarita fino in fondo; Facile intendere che è un terreno minato quello su cui si muove il cineasta, che individua la ferita aperta per ficcarci dentro le mani senza ricorrere a mezze misure, col risultato di apparire sì nel contesto arrogante, sì indelicato, ma anche sul pezzo, come a ribadire: facciamo cinema mirando a quel soggetto che è ancora caldo nella memoria e nella morale degli spettatori, quando cioè è ancora in grado di colpire in profondità. Se l’idea di partenza può apparire ruffiana, è il risultato che conta: Welcome to New York colpisce duro derivando il suo fascino da un contemporaneo che però, come si vedrà, riveste scarso peso sull’economia della pellicola. Infatti, su questa pagina cerchiamo non tanto di concentrarci sulla figura di Devereux/Khan (si capirebbe più e meglio su altri siti o wikipedia), quanto piuttosto di esaminare gli intenti impliciti nella messa in scena di Ferrara, che qui gioca molto con l’autoreferenzialità del mezzo filmico.

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Prendiamo l’inizio. Prima dei titoli di testa, viene mostrata un’intervista rivolta a quel che ci aspettiamo essere il personaggio protagonista (Devereux), accorgendoci però che, pur assistendo a una intervista costruita – cinematografica – il soggetto dell’intervista non è un personaggio, ma l’attore stesso: intervista nella quale Gerard Depardieu riferisce come la sua personalità sia distante da quella del personaggio di finzione, eppure di come, paradossalmente, egli sia stimolato a interpretare un personaggio così distante da sè:

Giornalista: “Riesce ad interpretare un uomo che detesta?”

Depardieu: “Certo! Preferisco interpretare chi non mi piace […] è meglio far piangere il pubblico, gli spettatori…mentre in realtà tu stai ridendo, dentro di te”

Depardieu interpreta sè stesso in questo incipit, ma è anche già Devereux in potenza; si capisce in parte dal modo in cui parla (“non sopporto i politici: li detesto!”) e da quello che dice (“sono un individualista, un anarchico”), ma anche da come Ferrara ha impostato la scena, come ad esempio nella scelta di impiegare attrici attraenti per impersonare le giornaliste (infatti la scena ricorda una sequenza successiva nel corso del film, quando Devereux tenta di approcciare sessualmente una giornalista).

Il film sembra continuamente sospeso tra il tentativo documentaristico e la tentazione di finzione. In tal senso Welcome to New York ricorda molto Blackout nello stile e The Addiction nel contenuto (una nuova forma di dipendenza psicologica distruttiva, questa volta dal sesso) prendendo nettamente le distanze dal poco riuscito 4:44 Last Day on Earth. E’ interessante notare come questo equilibrio precario vada a rompersi nella seconda metà della pellicola.

La pellicola infatti, è strutturata in due parti:

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La prima, più documentaristica, segue le vicende in ordine cronologico con un ritmo incalzante. E’ in questa parte che sono messe in scena le sequenze più “forti”: le scene di sesso (nelle quali Depardieu-Devereux sembra improvvisare perdendo il controllo e grugnendo come un orso) nonchè la scena dell’orgia con il cibo, in cui Devereux e alcuni colleghi si cimentano assieme a un sortito gruppo di escort in giochi sessuali con champagne e gelato, scena lunghissima e quasi ripresa nella sua interezza, ricca di punti di contatto con la sequenza dell’orgia dei poveri presente in Viridiana (Luis Bunuel, 1961), che mette in luce la classe di un regista che sceglie di indugiare sui particolari anche a costo di apparire prolisso. La parte centrale, poi, prosegue l’approccio documentarista con un piano sequenza nel quale l’uomo di potere Devereux è spogliato, ispezionato e umiliato. In tutto il film, comunque, la recitazione è sul filo dell’improvvisazione, similmente a come la messa in scena è sul filo tra documentaristico e della finzione.

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Nella seconda parte, dopo aver cronologicamente narrato gli eventi, ci si aspetterebbe di passare alla fase del legal thriller, cioè alla fase in cui gli elementi, ormai a disposizione dello spettatore, sono messi al banco dei testimoni. In questo film, invece, la parte girata in tribunale riveste un ruolo poco significativo, come a ribadire che non siamo qui per rappresentare la verità dei fatti, o per mettere in scena un evento pubblico, per narrare, insomma, come le cose siano andate o si siano risolte; e nemmeno per indagare i meccanismi della politica, della finanza o della corruzione. Ad esempio alla fine non si capisce come la moglie avvocato di Devereux riesca a salvare il marito, e ciò non può essere mostrato perchè andrebbe a toccare la realtà dei fatti, che non sono mai stati chiariti (e se fossero stati rappresentati, a quel punto avrebbero ragione quelli che accusano il film di disonestà). Quel che invece interessa al regista è, in una lunga sequenza, mostrare la vera natura di Devereux appoggiandosi sul confronto con la moglie: l’uno è un essere bestiale, fatto di istinti, di pulsioni che asseconda i propri bisogni indipendentemente dalle conseguenze, l’altra vorrebbe per lui un futuro da Presidente, ha speso la sua vita per costruire un immagine rispettabile che Devereux, nella sua follia lucida, respinge: “Sono fatto in questo modo, è la mia malattia” risponde.

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La seconda parte inoltre rallenta bruscamente il ritmo e fa spazio a riflessioni più profonde, mettendo in chiaro la vera identità della pellicola. Nel momento più pessimista di un film pessimista sulla natura umana, in linea col pensiero (e con l’opera) del suo creatore, Devereux mette in relazione il suo passato da universitario/idealista con la dura realtà: “L’ingiustizia? Avremmo raddrizzato tutti i torti. La fame? Tutti avrebbero mangiato a sazietà. La povertà? Un lontano ricordo la cui esistenza sarebbe stata difficile perfino da immaginare. La ricchezza sarebbe stata distribuita a ciascuno secondo i propri bisogni. Solo quando arrivai alla Banca Mondiale l’enormità del pathos del mondo e l’infinita sofferenza inerente alla natura umana si rivelarono nelle loro orribili manifestazioni…lentamente compresi l’inutilità della lotta…[…] le cose non cambieranno […] la povertà è un ottimo affare; gli uomini saggi sono confortati dai loro limiti: io sono esterrefatto da questa rivelazione” Da qui si capisce come Welcome to New York sia costruito allo scopo di mostrare non come la politica/finanza sia disonesta e di come la sua degenerazione possa generare mostri (Devereux), ma di come la politica finalizzata al bene (giustizia, uguaglianza, cura verso il prossimo) sia l’illusione dell’uomo che per sua natura è costretto a ripetere i suoi stessi errori per sopravvivere; e Devereux è il massimo esempio di uomo in preda a una dipendenza distruttiva che mina il potere ma che paradossalmente proprio grazie al potere può garantire il compimento della sua natura (seguendo un circolo vizioso impossibile da rompere).

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Il precario equilibrio tra finzione e realtà si infrange in prossimità di punti critici durante i quali l’aspetto di improvvisazione sembra prendere il sopravvento. Se il film predilige gli ambienti chiusi e una fotografia fredda, sembra però che i protagonisti vogliano ribellarsi alle gabbie in cui sono confinati. In una scena, Devereux sta conversando con la figlia; inizialmente sembra mostrare pentimento e rassegnazione; poi:

Figlia: “Avrei voluto poterti aiutare”

Devereux: “Non volevo io. No, mi correggo: non voglio io!” 

Dopo questo scatto d’orgoglio, si sentono voci fuori campo, come di qualcuno che disturba. Depardieu guarda dritto in camera ed esclama “Andatevene tutti a fanculo!”. Questa scena, oltre che rappresentare uno sfogo nel quale il protagonista afferma la sua identità rivendicando così anche la sua malattia, e dimostrando così di non pentirsi per i suoi comportamenti autodistruttivi, è anche direttamente rivolta al pubblico. Depardieu/Devereux buca lo schermo e si rivolge al pubblico come se dicesse “chi siete voi per giudicare? Smettetela di guardarmi!”. Lo stesso vale per la scena finale, in cui il protagonista fissa la macchina da presa con aria di sfida, e sembra dire “Siete ancora li?”. Questo vuol dire “essere visti” dallo schermo (del proprio PC, in questo caso). Ecco, Welcome to New York fa questo effetto.

Stefano