Steven Knight: Locke

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STEVEN KNIGHT

Locke

(UK 2013, 84 min., col., drammatico)

Poche chiacchere, Locke di Steven Knight è un film che è piaciuto all’unanimità. Consenso meritato? Si, in parte: Scritto brillantemente dallo sceneggiatore Steven Knight, che ha lavorato per Cronenberg e che ha alle spalle un solo film da regista (il dimenticabile Redemption), Locke è infatti il film che non ti aspetti, nè a un festival (ne abbiamo parlato in occasione dell’ultima Mostra del Cinema) nè, tantomeno, in sala. Ed è proprio a questo aspetto, secondo noi, che è dovuto grossa parte del suo successo.

Locke è un film claustrofobico e disturbante che esplora quanto una vita solida e ben fondata possa crollare nell’arco di poche ore. La scelta delle parole “ben fondata” non è un caso: Ivan Locke (Tom Hardy) è un manager di costruzioni edilizie, ed è specializzato in concrete (calcestruzzo). In Inglese concrete vuol dire anche “cosa concreta”, ed è esattamente ciò che è Locke: pragmatico, risoluto, in una parola, concreto. Un solo errore gli sta costando tutto: sta viaggiando in auto per assistere la donna che ha messo “per sbaglio” incinta, lasciandosi indietro carriera e famiglia. Non lo fa perchè ama quella donna, anzi, di lei non gli importa niente (ripete al telefono “I don’t love you”); lo fa per assoluto senso di responsabilità. Locke comunica la sua scelta in vivavoce con i membri più importanti della sua vita: con il capo e i colleghi, che si trovano di fronte ad un’epica colata di calcestruzzo per le fondamenta di un grattacielo, oltre che con la moglie e il figlio che l’aspettano a casa. Se i dialoghi sono, come già accennato, carichi di tensione, e la messa in scena accattivante nella sua semplicità (molto è dovuto alla fotografia ipnotica, costituita dalle luci artificiali dell’autostrada che creano un gioco di specchi all’interno dell’abitacolo), quello che non convince (nessuno ci ha fatto caso: ma è così poco importante?) è la credibilità della situazione.

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Da una parte, sul piano affettivo, la volontà di Locke appare poco chiara: vuole fare “ciò che è giusto” ma non si capisce specificatamente cosa voglia dire. Sacrificare tutto per vedere un figlio nascere non è una scelta molto strategica, e poco si addice a uno che fa del metodo e del rigore il suo stile di vita. Non convince nemmeno il tentativo del regista di giustificare la scelta richiamando il fantasma di un padre che non c’è stato nei momenti importanti. Dall’altra, sul piano lavorativo, non si capisce come sia possibile che Locke sia la sola persona a conoscere i dettagli di un’operazione edilizia di proporzioni colossali (“la più grande colata di calcestruzzo della storia”); in pratica Locke istruisce al telefono un collega poco qualificato per portare a termine quello che non può fare di persona: ma è davvero tutto nelle sue mani? Si capisce come si cerchi ostinatamente di elevare il personaggio ad eroe della volontà e della responsabilità che ha il peso del mondo sulle spalle. Metaforicamente potrebbe anche avere senso, ma dubitiamo fortemente di qualsiasi interpretazione “realistica” (molti hanno detto di questo film “molto realistico”: ma dove?). La bravura di Tom Hardy, con una delle interpretazioni più statiche che si siano mai viste al cinema, tutta basata su espressioni microscopiche, riesce miracolosamente a salvare l’intera operazione.

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L’originalità della pellicola sta piuttosto nelle sue componenti spaziali e temporali. Lo spazio è quello di un automobile che viaggia dal Galles a Londra, con un solo passeggero (Tom Hardy) che domina la scena dalla prima all’ultima inquadratura; il tempo è (approssimativamente) quello che corrisponde alla durata della pellicola, al punto che è ragionevole affermare che la durata del film (84 minuti) è parte della durata del viaggio in macchina, con l’illusione che quello che vediamo accade in tempo reale. Queste caratteristiche sono di per sè affascinanti e, se sulla carta corrono il rischio di impiantare severi vincoli alla struttura narrativa, sono in realtà gestiti così bene da far sembrare ogni elemento perfettamente al suo posto, e la vicenda scorre sullo schermo come il miglior thriller. Il merito è di una scrittura che in alcuni momenti raggiunge picchi altissimi (la descrizione della colata ha un sapore quasi epico, mitico). Onore al merito.

Stefano