The Master: L’Analisi

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Uno di quei film che ti lasciano storditi dopo che li hai visti, ma che si insinuano e sedimentano nell’animo, in attesa di crescere in profondità.

Perché scrivere ancora di The Master? Non è già stato detto abbastanza su questo film?

Può darsi, ma quanti film come The Master escono all’anno? Ci sono film che sembrano belli in maniera assoluta, dei quali è un piacere scrivere ma sui quali ogni discorso sembra sterile. Quei film sono belli e basta, esprimono un senso in maniera efficace, vengono apprezzati e discussi fino al momento in cui sono definitivamente archiviati.

Poi ci sono film come Holy Motors, Tabu, e appunto The Master.

Questi film forse non sono belli in maniera assoluta. Eppure, archiviarli è difficile. Ragione di ciò è la loro capacità inconfondibile di rimanere nella mente dello spettatore dopo la visione; quindi la capacità di arricchirsi (e arricchire) alle visioni successive; non sono film, come nell’altra categoria, che hanno un senso straordinario, ma sono film che producono senso ad ogni visione. Questi film, che per noi sono i veri capolavori, sono anche quelli che riescono soprattutto a produrre senso in virtù proprio della loro componente cinematografica “pura”, cioè inquadratura e luce/fotografia, quando si riconosce che queste componenti, da sole, sono in grado di veicolare senso ancor più di altre componenti necessarie ma (in questo caso) non sufficienti, come interpretazione e sceneggiatura. Ecco, proprio il taglio dell’inquadratura è fondamentale per PTA, e in The Master basta spesso quella, come si vedrà nell’analisi, a conquistare lo spettatore senza soggiogarlo alla trama/sceneggiatura/parole. Per fare un esempio: tutti lodano la qualità interpretativa di Joaquin Phoenix nel film, ma, senza la tensione dei movimenti di macchina e il taglio delle inquadrature studiate e realizzate da PTA rigorosamente in analogico su pellicola, questa qualità non verrebbe mai catturata pienamente.

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Per me, per la mia idea di cinema che non si è mai veramente affrancata dal cinema hollywoodiano, ho preferito parlare di The Master. Perché The Master è un film di Hollywood, è stato realizzato con i mezzi di Hollywood, i budget (32 milioni $) di Hollywood, ma piega alla sua volontà, dall’interno, il sistema-Hollywood. Non è “alternativo”, non è “sundance”: è un art-film, ma assolutamente hollywoodiano; nel cinema di PTA, specie quello degli ultimi 3 film (Ubriaco d’Amore, Il Petroliere e The Master), le componenti hollywoodiane e autoriali sembrano sempre più indistricabili. Per questo The Master risulta un miscuglio di classicismo e sperimentazione: Pur manifestando la grandezza (un respiro ampio e una complessità di dettaglio garantito dai 70 mm con cui è girato, il doppio di una pellicola tradizionale) del film classico, è  però un film che sacrifica parte della componente “solida” dei classici (un intreccio chiaro, uno sviluppo lineare, personaggi ben definiti ecc.) a favore di una componente “liquida” e sperimentale: strappi improvvisi nel montaggio (che “nasconde” più che illustrare), personaggi che agiscono in maniera imprevedibile, uno sviluppo irregolare e jazz che costruisce e si capovolge, mettendosi in discussione. Mette in discussione persino il suo punto di partenza: The Master doveva infatti essere un film su Scientology. Ma The Master parla di Scientology come Il Petroliere parla dei cercatori di petrolio e Ubriaco d’Amore racconta una storia d’amore (sovvertita), tutti pretesti per illustrare un orizzonte più ampio. PTA crea nei suoi film una fitta stratificazione di senso che in The Master raggiunge l’apice e ne fa (ad ora) il suo insindacabile capolavoro. E’ limitativo pensare a The Master come a una biografia sul fondatore di Scientology. Cos’è, infatti, The Master? E’ un film che esamina le tecniche di comunicazione? Parla, smascherandola, della manipolazione religiosa? Parla della relazione tra due uomini? E poi, c’è verità in questa relazione tra i due, o è tutta falsificazione? Parla della psicologia di una persona oppure di una nazione, l’America dopo la guerra, senza più appigli, sospinta nel vuoto? Non c’è forse qualcosa della natura creatrice e distruttrice dell’America, senza un vero passato (se non fondato su basi instabili e violente), nelle figure di Quell e Dodd?

Ri-parlare di The Master, così come soprattutto ri-vedere The Master è un piacere, perchè è un film che può essere guardato e riguardato da differenti punti di vista, dando ogni volta l’impressione di avere qualcos’altro da dire. Le accuse dei detrattori del film, infatti, possono essere sintetizzate così: “freddo e cerebrale; non va in nessuna direzione; sembra che il film sia rimasto più nella testa del suo autore che sulla pellicola in sé”.

Questo perché The Master non è un film che spiega idee, è un film che instilla idee. Riflette, persino, sul medium cinematografico (meno apertamente di Holy Motors e Tabu), qualità che per noi è importantissima in quanto per lo spettatore, riflettere sul medium cinematografico significa anche guardarsi allo specchio. L’aspetto “cerebrale” di The Master non risiede nel film in sé ma in uno spettatore non è abituato alle ellissi, alle parti allucinatorie, alle sequenze senza spiegazioni, alle direzioni prese senza un perché. Nell’analisi che seguirà, cercheremo di approfondire alcune di queste sequenze per realizzare che niente di quello che c’è in questo film è messo “a caso”.

 

Scena Iniziale

La prima immagine del film è la scia della nave da guerra su cui è imbarcato FreddQuell (Joaquin Phoenix). Irrompe, violenta, la musica di Jonny Greenwood. E’ un attacco solenne, improvviso, e irregolare. Anticipo in musica di ciò che seguirà: qualcosa di difficile da identificare e prevedere, denso, magniloquente e inafferrabile.

Vediamo per la prima volta il protagonista. PTA decide di realizzare un primo piano di Quell che però è tagliato tra la nave e l’elmo: è solo il primo di tanti casi di “non mostrato” o “mostrato a metà” che costellano The Master, film che ha nel non-visto la stessa importanza di ciò che si vede, in cui non ci è dato vedere tutto ma una parte del tutto; il risultato di questo approccio è che ciò che vediamo non “spiegato” amplifica un senso di “impressione” nella mente per la quale, paradossalmente, capiamo di più sul personaggio vedendone una frazione del viso che attraverso un primo piano completo: Phoenix “emerge” dal metallo della nave, e si guarda intorno. L’inquadratura, bellissima, dura quasi un minuto con la musica di archi in sottofondo che creano una magica sospensione. Phoenix sembra imbambolato, stordito e, soprattutto: stanco. Ecco, in quaranta secondi di inquadratura fissa sappiamo già qualcosa di lui, della sua solitudine: e niente è stato ancora detto o fatto. Questo è il livello di densità nel cinema di PTA.

La musica cresce di intensità e il suono delle percussioni si sincronizzano perfettamente con i colpi di Quell. Ci troviamo su una spiaggia ma la sensazione è quella di stare assistendo a un sogno (o meglio: a un ricordo alterato), più che a una realtà, attraverso una inquadratura rischiarata di una luce abbagliante e attraverso (probabilmente) l’uso di lenti deformanti che “flettono” le immagini (si veda l’orizzonte marino “ricurvo”).

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Quell è intento a preparare l’intruglio che, per tutto il film, sarà il “ponte” tra sé stesso e gli altri (con la ragazza al centro commerciale; poi con il maestro, che gli chiederà di migliorarne la ricetta), ma anche il correlativo oggettivo del suo male. Il misterioso intruglio, ricavato all’inizio addirittura dal propellente di un siluro, è il veleno di Quell, il propellente del suo oblio.

Quell è una figura bestiale, ripugnante e imbarazzante mentre finge un rapporto sessuale con una scultura di sabbia. Questo momento, nel quale, esausto, giace al suo fianco, rappresenta ciò che Quell insegue (e inseguirà, nel corso della pellicola) da tutta la vita: una presenza in grado di tranquillizzarlo, di dargli pace, conforto; e ricorrerà alla fine del film.

 

Scena del centro commerciale

PTA ricorre subito al virtuosismo con l’artiglieria pesante di un piano sequenza meraviglioso non tanto per la sua lunghezza, quanto per la grazia con cui viene realizzato. Questa scena rappresenta l’aspetto seducente della pellicola, e la propensione del regista per la steady-cam: La mdp è “incantata” dalla modella che gira su sé stessa, e noi con lei. Notare come l’oggetto dell’inquadratura sia sempre a fuoco mentre tutto il resto comunque non passa in secondo piano, grazie ad una costante profondità di campo che garantisce anche una descrizione di ciò che la circonda e una ricostruzione minuziosa del mondo statunitense del dopoguerra (le foto plastiche, l’ottimismo come facciata di un centro commerciale ecc.).Anche qui c’è un non-mostrato interessante: nella sua esibizione, la modella sorride verso un punto imprecisato fuori quadro, corrispondente al punto che raggiungerà al termine del piano-sequenza, ovvero la postazione da fotografo di Quell.Questo è il primo di due piano-sequenza magistrali; il secondo si colloca nella scena della prigione ed è differente, interamente nelle mani di Phoenix e Hoffman: 2 minuti ad inquadratura fissa.

L’incontro con la donna sarebbe un momento di gioia, o perlomeno di godimento in qualsiasi altro film, mentre invece in The Master quello che poteva (avrebbe dovuto?) risolversi in una scena d’amore è negato: Quell si addormenta, probabilmente stroncato dallo stesso intruglio che prepara per stordirsi, evadere (da cosa?), proprio durante un appuntamento con la ragazza.

Il suo essere reietto e frustrato assume forme violente nel momento in cui aggredisce un cliente senza alcun perché. Questa scena, e quella successiva in cui scappa senza direzione in un campo coltivato, serve ad evidenziare la difficoltà di Quella inserirsi in un qualsiasi contesto civile, anche ai confini dei luoghi ordinati della società, difficoltà causata dalla sua storia personale (una madre in manicomio) e aggravata dalla sua esperienza bellica. Non a caso è collocata immediatamente prima dell’incontro con il Maestro.

 

Scena dell’incontro

Come si è detto, Quell cerca un rifugio. Lo trova, guardacaso, a bordo di una nave: non potendo avere un punto stabile sulla terraferma, per lui è meglio imbarcarsi, come ha fatto (e verosimilmente, farà) per tutta la sua vita.

Questa scena farà da contraltare della scena finale del film. La seconda volta in cui Dodd (Philip Seymour Hoffmann) riceverà Quell sarà molto diversa, come si vedrà. Non è possibile analizzare The Master considerando il legame tra Quell e Dodd come una caratteristica del film, poichè il legame tra i due è il film.

L’imbarco sulla nave è un distacco dal passato: “le tue memorie non sono invitate”. Il maestro propone un viaggio al suo passeggero: dalla California a New York, passando attraverso il canale di Panama, ma anche un viaggio nella memoria. Che cosa vuole Dodd da Quell? E’ un intruso sulla sua nave. Potrebbe lasciarlo in porto alla prima fermata. Vuole due cose: farne una cavia, in modo da provare, soprattutto a sé stesso, le sue capacità curative-soprannaturali; questo si capisce, è prevedibile nel film. Ma vuole qualcos’altro: vuole anche essere come Dodd: questo non è prevedibile e crea disorientamento nello spettatore. Non a caso, gli chiede di replicare il veleno di Dodd, ne vuole assaporare l’oblio: il grande guru della setta, impeccabile guida dei suoi adepti, vuole stordirsi; così sicuro di sé, eppure anche lui vuole sfuggire a sé stesso.

 

Scena dell’intervista

E la seconda meraviglia “tecnica” del film, sotto praticamente ogni aspetto (emozionale, estetico, e di scrittura), arriva nella lunga sequenza del Plagio.

PTA costruisce un gioco di specchi con il semplice utilizzo di campi e controcampi alternati a luminosi flashbacks che rende giustizia al livello altissimo di recitazione dei due attori coinvolti. La tecnica del “battito di ciglia” è un metodo simil-psicanalitico per Dodd ma è anche un pretesto per PTA di dimostrare la sua capacità nell’affrontare un ritmo teso e implacabile. La sensazione è quella di stare assistendo ad un gioco, ad una seduta psicanalitica e ad una tortura, contemporaneamente.

Il cambio di espressione nel volto di Phoenix è da annali di recitazione e rende in maniera esplicita il momento in cui il maestro fa breccia nella mente di Quell. E Dodd? La sua tecnica sembra improvvisata, ma la tenacia con cui somministra la sua cura ci fa pensare che sia davvero convinto di quello che fa. Dodd promette di tornare a memorie cancellate attraverso viaggi nel tempo in grado di ridare la forma “intatta” del sé. Ma la vera ragione del successo dell’intervista è che Dodd si pone come l’unica persona conosciuta fino a quel momento da Quell in grado di dargli quello che cerca: qualcuno che lo capisca, che lo tranquillizzi, che si prenda cura di lui: “sei al sicuro qui. Sei sul mare.”

Da qui a formulare una lettura più amplia sulla storia d’America del dopoguerra, sullo spaesamento dopo il conflitto e sulla ricerca affannosa di punti di riferimento per un’intera nazione, il passo è breve.

Questo plagio, in un altro film, sarebbe stato reso in modo che lo spettatore arrivasse a pensare “è tutto un trucco; è tutta falsificazione; si capisce che lo sta prendendo in giro per interesse personale ecc. ecc.”. Invece, il legame tra Dodd e Quell è vero! non è falsificazione: è autentico. Alla fine della seduta, entrambi ridono e sono sinceramente sollevati. Dov’è la critica alla setta-Scientology? Dov’è l’accusa di manipolazione? Non la troverete, perché non c’è. Non perché PTA abbia paura di esporla chiaramente: perché non gli interessa, perché se la inserisse appiattirebbe l’intero film. Non mostra platealmente il lato economico, sporco, della setta. Ridurrebbe così un film magistrale, e dal significato universale, in un’operetta di impegno civile dalla quale The Master è lontano anni luce.

Ciò non toglie che questa tecnica “oggettiva” di Dodd è e rimane una menzogna. Dodd lo sa, come si vedrà nelle scene successive, e ogni volta che qualcuno glielo farà presente (quando viene attaccato da uno scettico ad un ricevimento; oppure quando viene interpellato da una sua finanziatrice alla presentazione del suo libro), perderà le staffe (diventerà non molto dissimile a Quell nella sua ira). Ma ecco, il bello è che per quanto sia una menzogna, non viene detto banalmente “una menzogna è cattiva e porta solo a cattive conseguenze”. Anzi, paradossalmente, la menzogna spinge Quell verso la verità!

 

Scena della festa

Così come Dodd vuole essere come Quell, e Quell vuole essere come Dodd, viene esplicitato nella strana scena della festa (che si colloca a metà film) in cui Dodd si esibisce cantando una canzone. E qui viene reso, implicito però (sarà esplicitato più avanti) anche il terzo incomodo: la moglie di Dodd, Peggy (Amy Adams).

Innanzitutto, è il momento in cui prendono forma sullo schermo, senza filtri, le fantasie di Quell. PTA pone come centro di interesse Dodd ubriaco ammaliatore in mezzo ai suoi adepti (soprattutto donne). E’ un oggettiva. Tutti, ma soprattutto tutte, sono conquistate dall’esplosiva vitalità del maestro. Tutte lo adorano, suonano e battono le mani al ritmo della sua stupida canzone.

Inquadratura di Quell, ubriaco, annoiato, seduto su un divano. E’ solo. Tiene lo sguardo fisso sulla scena. Zoom lentissimo. PTA vuole farci entrare, finalmente, nella soggettiva di Quell.

PTA spoglia le donne in scena. Doddfa sempre più il cascamorto con le sue spettatrici. Nella immaginazione di Quell, Dodd può avere tutte le donne che vuole. Quell invidia Dodd, tanto più quanto Dodd si lascia andare quando è ubriaco. Quando Dodd è ubriaco ad una festa, tutte vogliono stare con lui; quando Quell è ubriaco ad una festa, nessuna vuole stare con lui. Implicitamente, Quell vuole essere come Dodd per ovvie ragioni, ma non può esserlo perché non possiede la natura di Dodd. Così come Dodd non può essere assolutamente libero come Quell, non perché non ne possiede la natura, ma perchè entra in gioco sua moglie, Peggy.

A un certo punto infatti, PTA si dimentica di seguire il suo punto di interesse, Dodd, e lascia che il maestro venga ripreso a metà. Dodd non è neanche più a fuoco, mentre Peggy (appena accennata fino a quel momento in quella scena) per pochi secondi è al centro dell’attenzione. Rivolge uno sguardo fermo nei confronti di Quell. Lei non è ai margini della scena, è al centro della scena, si interpone fra l’esuberanza di Dodd e le fantasie di Quell.E’ lucida, severa. Ha tutto sotto controllo.

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Peggy si oppone a Quell perchè Quell ha una cattiva influenza su Dodd, e lo sta, forse, distogliendo dalla Causa (e dal suo controllo). E’ evidente a questo punto come il maestro sia tirato in due direzioni: quella dell’istintività (della libertà, ma anche dello stordimento, dell’angoscia di non avere punti di riferimento) da Quell e quella del controllo (e dell’ambizione, del potere che però regola, vincola e castra) da Peggy. Dodd è finalmente leggero quando beve l’intruglio di Dodd, quando, ubriaco, si dimentica dei suoi problemi (è nel mirino della legge, proviene da uno o due matrimoni falliti, è escluso dalla comunità scientifica). Ma Peggy non perde occasione di rimarcare il controllo sul marito (nella scena successiva, lo motiva mentre gli pratica una masturbazione; più chiaro di così!). Si direbbe che Dodd sia solo un portavoce, un megafono, ma che sia Peggy la mente fredda e calcolatrice dell’organizzazione.

Le scene che seguono, infatti, mettono in crisi la relazione tra i due personaggi: Peggy cerca di convincere Quell a rispettare le sue regole; Dodd e Quell vengono arrestati e hanno un violento alterco; a tavola, i familiari di Dodd cercano di convincere il maestro ad allontanare Quell, la “causa perduta”, fino a una nuova serie di terapie.

 

Scene della terapia

C’è quasi sicuramente un’ellisse tra il momento in cui la famiglia di Dodd cerca di convincere il maestro ad abbandonare Quell e l’inizio della terapia di Quell. Lo dimostra il modo in cui Dodd riceve Quell, come se fosse passato molto tempo. Mano a mano che il film prosegue nella sua seconda parte, si fa sempre più allucinatorio, anche per via di queste frequenti ellissi, che confondono lo spettatore al punto da fargli smarrire la linea temporale del racconto.

La funzione di Quell come animale da cavia all’interno della Causa è espressa in una sequenza di scene spezzate da un montaggio frenetico. Quell viene sottoposto a una serie di prove, che stanno a metà strada tra la psicoterapia e la fantascienza: gli viene chiesto di allontanarsi dal principio di realtà, di rinunciare alla sicurezza dei sensi camminando avanti e indietro in una stanza; di cambiare il colore degli occhi di Peggy (che, diventando neri, danno apertamente alla donna una espressione inquietante, demoniaca); di farsi insultare dai familiari di Dodd. L’intento di queste prove, che hanno dei risvolti a tratti grotteschi, è, in apparenza, di rendere un uomo in preda agli istinti (“sei solo un animale”) una persona docile e addomesticata.

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Come si vedrà, i test non funzionano. Ma non è che non funzionino in assoluto. Ancora una volta emerge la complessità del rapporto da Dodd e Quell: una menzogna (ovvero i test, e quindi le convinzioni del maestro; suo figlio non esiterà a confessare “si inventa tutto ogni volta”) non può portare al risultato sperato (la guarigione, o meglio, la completa sottomissione di Quell alla Causa) ma ad un “altro” risultato. Cambia infatti qualcosa in queste sequenze (e lo spettatore è, nuovamente, portato fuori strada), non solo per Quell ma anche per Dodd.

Dodd, in questo momento del film cambia idea sulla natura stessa della Causa. Il nuovo libro, sorta di Secondo Vangelo, viene finalmente pubblicato dopo che il materiale è stato dissepolto da una misteriosa scatola in mezzo al deserto. La nuova “impronta” della filosofia spiazza tutti. Il nuovo concetto non è più “Riesci a ricordare?” ma “Riesci a immaginare?”, il che significa un abbandono di tutto quanto affermato fino a quel momento e l’abbraccio di una nuova filosofia, forse più accessibile al grande pubblico. Quando una sua adepta, e finanziatrice, mette in dubbio la nuova filosofia, causa l’ira di Dodd, a riprova che il Maestro non è nemmeno convinto di quel che afferma. Ma è stato il rapporto con Quell ad averlo messo in crisi? O la crisi era già latente?

La Causa infatti finisce per scontrarsi contro l’irriducibilità del discepolo, in una scena meravigliosa nella quale Freddie, eccitato dalla velocità, fugge via in motocicletta oltre l’orizzonte, oltre il limite disegnato da Dodd, al quale non rimane che vedere col binocolo una sagoma sempre più vaga in lontananza.La fuga dal maestro è compiuta, e Quell, pur conservando la sua natura (fallimento del processo di guarigione), viene finalmente spinto a tornare all’origine del suo dolore (compimento del processo di guarigione): per Quell andare a cercare Doris, ragazza abbandonata anni prima che ora lo ha abbandonato, significa affrontare la realtà.

Scena del cinema

The Master procede verso la fine infittendo sempre più la sua indecifrabilità, e adottando una direzione opposta al classico svolgimento conclusivo orientato alla chiarificazione, alla rassicurazione. Per questo le ultime scene sono le più complesse.

Prendiamo la scena in cui Quell, allontanatosi da Dodd e scoperta la verità sulla ragazza che ha sempre inseguito, si trova in un cinema. PTA punta a confondere lo spettatore al massimo, non solo omettendo di descrivere il senso di ciò che finora ha esposto, ma mettendo in discussione l’effettiva realtà di quello a cui lo spettatore sta assistendo; a riprova che i temi affrontati da The Master hanno come comune denominatore il rapporto tra verità e falsificazione, la loro interdipendenza, e l’idea che anche la falsificazione contenga una verità, e viceversa. La distanza dal club Silencio di Lynch non è incolmabile: Quell sta dormendo mentre sta guardando un film (quale? Se ne parla dopo) ed è svegliato da un custode che gli porta un telefono (situazione, di suo, già abbastanzairreale). E’ Dodd, che gli chiede di andare a trovarlo in Inghilterra: “So come curarti”. Quell risponde “Come hai fatto a trovarmi?”. Nell’inquadratura successiva, Quell, svegliatosi nella stessa posizione di prima, realizza che è stato tutto un sogno. Si potrebbe persino azzardare che molto di quanto si sia visto finora sia stato solo un sogno…

Ci sono ben 20 minuti di scene tagliate in The Master; tra queste, (a 14.40 min.) vi sono inquadrature di questo cinema. In proiezione è un cartone animato, Casper il fantasmino, il film cui sta assistendo Quell.

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Ora, Casper parla del fantasma di un bambino morto; è un cartone animato che, a suo modo, parla della morte, o meglio: parla di una vita non vissuta. Casper era un bambino, aveva una vita che si è interrotta, e ora continua a vivere come un fantasma. Non suona come un’attinenza alla vita di Quell, che si è interrotta con l’arrivo della guerra? E’ un caso che sia proprio in una sala cinematografica che PTA abbia voluto ambientare la scena che precede l’incontro finale tra Dodd e Quell.

 

Scena dell’ultimo incontro

Come si è detto questa è la seconda volta in cui Dodd convoca Quell, ed è molto diversa dalla prima. Non ci troviamo più su una barca, su una base provvisoria; ci troviamo nella nuova base della Causa, stabile e sulla terra ferma della Causa…nel vecchio continente. Dodd accoglie Quell nel suo studio gigantesco, sembra un castello: ci troviamo nel vecchio mondo. In questa scena finale, si fa il bilancio del rapporto tra Quell e Dodd.

Il valore mistico del rapporto è subito esposto: in una vita passata si sono conosciuti a Parigi, durante la guerra Franco-Prussiana. I due, per comunicare, si inventavano palloni aerostatici per superare i blocchi imposti dall’esercito prussiano assediante la città. Entrambi sanno che sarà l’ultima volta che si vedranno; ogni tentativo di riavvicinamento sarebbe inutile, anzi impossibile perché PTA al solito non ci mostra che nella scena non ci sono solo loro, ma anche Peggy a fare da guardia, a impedire ogni tentativo. Sorprendentemente, PTA decide di non mostrare Peggy all’inizio della scena, ma di mostrarla al fianco di Dodd quando il dialogo è già iniziato da molto: a testimoniare che lei è sempre presente, sempre a controllare tutto, PTA vuol farci capire che anche se non si vede Peggy è nell’ombra, rimane una presenza onnipresente (e opprimente).

Questo film, è chiaro, è soprattutto una storia d’amore tra due uomini (inteso come due personalità, o meglio: come due parti opposte dell’animo umano, in cerca di un equilibrio) che è iniziato molto prima dell’incontro tra il marinaio e il maestro; va avanti da secoli. E questo è il momento della separazione tra i due uomini (“se mi lasci, non tornare…se riesci a vivere la tua vita senza un padrone, fammelo sapere…nella prossima vita sarai il mio peggior nemico”). Questo amore è finalmente espresso, imprevedibilmente, nella canzone che intona Dodd: è Slow Boat to China, canzone jazz che nelle parole di Dodd diventa qualcosa di struggente:

All to myself alone
Get you and keep you in my arms evermore
Leave all your lovers weeping on the faraway shore
Out on the briny with the moon big and shiny
Melting your heart of stone
I’d love to get you on a slow boat to China
All to myself alone

“vorrei portarti con me su una barca in Cina, tutto per me, portarti e tenerti tra le braccia” è indicativo di ciò che non può essere cambiato: Dodd non sarà mai come Quell e Quell non sarà mai come Dodd. Quell continuerà a viaggiare, si distaccherà dal maestro, sceglierà una vita di viaggio nonostante Dodd sia stato quanto più vicino alla donna che ha amato dal suo ritorno dalla guerra. La domanda su cui tutto il film si è incentrato, il rapporto tra verità e falsificazione, giunge al termine: il rapporto tra i due è stato qualcosa di autentico, sebbene basato sulla menzogna. Lo testimoniano le lacrime di Quell.

 

 

Scena finale

PTA è famoso per le scene finali dei suoi film. Il finale di The Master non ha il potenziale cult dello storico finale di Magnolia, eppure è straordinario per quello che lascia allo spettatore.

Quell incontra una ragazza in un pub e ci va a letto. Questo momento appare, finalmente, liberatorio e questo potrebbe essere tranquillamente la conclusione del film (Quell si è finalmente liberato dei suoi tormenti?) se non fosse che durante l’amplesso Quell sottopone, scherzosamente, la ragazza alla stessa “intervista” cui egli stesso è stato sottoposto “sei la ragazza più coraggiosa che abbia mai conosciuto”. Qual’è il significato di ciò? Ci potrebbero essere due significati (e ovviamente nessuno ha predominanza sull’altro). Il primo è che Quell è davvero guarito, al punto da avere anche compreso la finzione delle teorie di Dodd, ora schernite, ridotte a sciocchezza da mormorare alla nuova ragazza, una cosa di cui ridere, divertirsi, prendere in giro: il che vorrebbe dire che Quell si è davvero affrancato da Dodd, che le teorie di Dodd sono definitivamente fallite (perché, appunto, false). Il secondo è che Quell non solo non è guarito, ma è ormai legato a Dodd da un legame indissolubile, profondamente spirituale, al punto da ricordare le sue parole in un momento di intimità, e (finalmente) felicità. Questa contraddizione rende il finale tanto enigmatico quanto affascinante.

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L’ultima inquadratura chiude il cerchio. Rivediamo Quell che si riposa al fianco della scultura vista all’inizio del film. Il seno della ragazza che sta con Quell nell’inquadratura precedente, situato nell’angolo in basso a sinistra dello schermo, si configura ora come il seno di sabbia della sirena.La scultura di sabbia non è un simbolo di semplice funzione descrittiva, ma un simulacro di tutto ciò che nel film è davvero inseguito, cioè una presenza umana o soprannaturale in grado di dare pace, conforto, tranquillità, senza che questa venga mai trovata veramente (forse “a sprazzi”: un rifugio temporaneo) né da Quell né da Dodd; è piuttosto un ideale cui si consegna alla fine, stanco, Quell e tutto il film.

“Riesci a ricordare una parola?” “Lontano.” risuona come un eco.

Stefano