Mostra del Cinema di Venezia: Giorno 7. Ki-Duk, Gilliam, Pasolini
Parlando con una giornalista mi sono reso conto dell’insistenza con cui i registi delle opere presentate a Venezia insistano con la violenza. Effettivamente tutte le opere recensite, a parte pochissime eccezioni, hanno a che fare o utilizzano la violenza come linguaggio. Se la Mostra ha, tra le sue ragioni d’essere, lo scopo di fare il punto sulla situazione del cinema contemporaneo e, seppur indirettamente, sulla realtà, questo cosa comporterebbe? Uno scenario umano desolante. Una riflessione che andrebbe approfondita.
Ah, ho visto Scarlett Johannson. La mia visita qui ha avuto un senso, dopotutto.
Kim Ki-Duk: Moebius (Corea del Sud)
Il film che ha disgustato il pubblico di Venezia dopo la vittoria dell’anno scorso. Ciò che la stampa tralascia è che tra evirazioni, erotismo malato e incesti, il pubblico si è anche divertito parecchio. Sono infatti convinto, ma è un parere assolutamente soggettivo, che superata la prima scena shock ci sia abitua presto alle atrocità della pellicola, e che una volta superato il rifiuto, si può in tutta serenità apprezzare il discorso che Kim Ki Duk affronta con il suo personalissimo stile. Uno stile estremo che va accettato o respinto senza mezzi termini: Moebius infatti è completamente muto, un cinema che alla parola sostituisce non solo l’azione, ma il gesto erotico e il gesto violento. Nel cinema di Ki-Duk eros e violenza sono componenti sublimati a linguaggio, sono impiegati come forma di comunicazione più pura della parola. In questo film il ragazzo evirato scopre che si può sostituire il piacere sessuale “convenzionale” con una forma di godimento più intenso, attraverso il dolore fisico (“tutto il corpo è un organo genitale”). Fino a qui l’assunto è interessante; il discorso prosegue così abbracciando anche la componente edipica e l’ossessione freudiana.
Bisogna guardare oltre: oltre l’orrore dei gesti, oltre il piacere e il dolore, oltre il sesso e la morte, oltre la carne e la materia, c’è ben altro che aspetta, da sotto la superficie di sadismo, in attesa di emergere in tutta la sua spiritualità.
Per questo meglio un Kim Ki Duk sporco e cattivo che cento patinatissimi Alexandros Avranas.
Ripeto, il film può piacere o non piacere. Ma per favore, evitiamo scenate o dimostrazioni di disgusto come molti qui hanno fatto: aprite la mente e fatevi una risata ogni tanto. E’ solo cinema.
Terry Gilliam: The Zero Theorem (Regno Unito)
Gilliam con questo film dimostra di non avere mai superato il successo di Brazil. Come nel film del 1985 c’è un uomo che vive in una società distopica e opprimente; questa volta viene incaricato da una multinazionale di dimostrare che l’universo non ha significato, che la ragione stessa della vita e del mondo è uguale allo zero. Da questo, la multinazionale vorrebbe trarre profitto (come?). L’ex Monthy Python ce la mette tutta per gestire questo casino immane, questo mucchio di domande filosofiche, di riflessioni sulla società contemporanea tutt’altro che eleganti, anzi direi grossolane e facilotte, nate già vecchie. Vorrebbe mettere in scena la ricerca del senso della vita attraverso la scienza e la matematica, ma il disordine che segna il suo film (e più diffusamente il suo cinema) non permette alcuna risposta se non l’affogamento dello spettatore in un magma di ragionamenti senza forma, verso o direzione. Gilliam rappresenta il contrario della chiarezza espressiva che noi rispettiamo e ricerchiamo in un film: i suoi film fanno soffocare, non respirare. Quello che salva il regista è la sua simpatia e la cura con cui inventa i suoi universi: costumi, scenografie, marchingegni sono, come sempre, il suo punto forte.
Uberto Pasolini: Still Life (Regno Unito)
Il pubblico ha adorato questo piccolo film presentato in Orizzonti dal regista Uberto Pasolini, a me sconosciuto, ed era da tempo che non vedevo una tale commozione negli spettatori in sala. John May è un impiegato incaricato a provvedere alla sepoltura di persone di cui non importa più niente a nessuno. In pratica quello che fa è rintracciare le persone conoscenti dei defunti e di convincerle a venire al funerale: ridà dignità ai morti che hanno perso dignità in vita.
May svolge il suo lavoro con grande zelo e diligenza, con una cura spesso presa per lentezza, tanto che l’ufficio per cui lavora, che non capisce la sua dedizione ai morti, decide di togliergli l’incarico.
Still Life è un film sulla solitudine, triste ma leggero. Amanti di Kaurismaki avvicinatevi: questo film fa per voi. Una piccola storia narrata con dolcezza.