(The Mill And The Cross, Pol/Sve 2011, 92 min., col., dram)
Chi ha giudicato The Mill And The Cross un film-giocattolo, un sofisticato esercizio di stile, soffermandosi con paragrafi e paragrafi su luci ed ottica, lodandone la fotografia sontuosa e il rapporto con il pittorialismo, e quindi puntualizzando la coincidenza sublime tra inquadratura e dipinto, ha visto solo metà di un film che è soprattutto ineccepibile nella sostanza, e non solo nella forma.
Il fortunato spettatore che si avvicina a questa pellicola deve sapere cosa lo aspetta. Film storico? No, fissità prolungata, mancanza di linearità. Film drammatico? No, assenza di convenzione narrativa. Cos’è allora? Questo film è La Salita al Calvario, dipinto olio su tavola del 1564 di Pieter Bruegel detto Il Vecchio. Ci troviamo contemporaneamente: fuori dal quadro (Bruegel stesso illustra l’opera), dentro il quadro (i personaggi che lo abitano e che ci “vivono” dentro) e in una terza dimensione, ideale, perfetta, assoluta, infinita che è l’Arte che fonde tutto: all’interno della mente dell’artista, il reale e l’ideale si mescolano e ogni cosa acquisisce senso. Così il mugnaio, che ogni giorno macina il grano (quasi meccanicamente, poiché ogni personaggio è mosso da una forza esterna che lo priva di volontà), agli occhi dell’artista è Dio che apre il cielo dall’alto del suo mulino.
Tableau vivant di magnifiche proporzioni, vera e propria immersione nel dipinto (alternanza di fondali veri e creati al computer, utilizzo intelligente del blue screen ecc.) in cui gli “effetti” sono il pilastro stesso del film; senza di essi in teoria non avrebbe nemmeno ragion d’essere. Mai l’artificio è stato così funzionale allo scopo. Altro che 3D.
Ma la pellicola ha così tanto da dire che è un crimine soffermarsi all’aspetto estetico. Vi sono la rigenerazione della Storia; e il processo creativo dell’Arte. La Storia: Bruegel dipinge la Salita al Calvario durante gli anni della riforma, le fiandre sono sotto il controllo della Spagna cattolica, che sguinzaglia i suoi mercenari per reprimere ogni forma di dissenso politico e religioso. Cristo è nuovamente ucciso e i suoi stessi ministri ora massacrano in suo nome, si ripete una “passione” di eretici, in cui stavolta ci sono protestanti messi in croce mentre divise spagnole prendono il posto delle armature romane. E qui il ruolo dell’Arte, che attualizza la Passione aggiornandola alla sofferenza e al dolore del presente, contestualizzandosi nelle fiandre dilaniate dalla persecuzione religiosa. E poi la creazione dell’opera. Come il ragno tesse la sua tela (e chi ha visto qualcosa di Bruegel conosce bene i suoi studi su uccelli, insetti ecc.) l’artista imbastisce un’impalcatura che ha come perno un Cristo schiacciato dalla sua croce e tutt’attorno un’orbita di umanità spaccata tra angoscia e speranza, pietà e crudeltà, vita e morte. E nello stesso modo in cui alla morte segue la rinascita, nel finale, alla “morte” del dipinto (fisso, immutabile) corrisponde una rigenerazione che avviene ogni volta che lo spettatore lo guarda, il momento esatto in cui ciò che una volta è stato prende vita, anche solo per un istante.
Il regista e (non a caso) pittore Lech Mayewski firma, dopo tre anni di lavoro, un film che è più di un film: è un esperienza. Chi si accontenta del cinema tradizionale e delle sue regole fossilizzate senza riuscire a vedere al di là dei propri limiti, stia alla larga I Colori della Passione; qui si vive l’arte e la storia, la filosofia in tempo reale. Non c’è scampo per lo spettatore medio in cerca di facile “fruizione” cinematografica: ritmo e montaggio vengono stravolti, secondo un modo di fare che è dichiaratamente, e serenamente, sperimentale. E’ un cinema contemplativo, ambizioso, epico, universale e soprattutto: votato alla bellezza.
Il cinema sfonda la barriera che separa lo spettatore e il dipinto. Le vie dell’arte, e del cinema, sono infinite.
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