Noah Baumbach: Mistress America
NOAH BAUMBACH
Mistress America
(Usa 2015, 84 min., col., commedia)
L’impressione che abbiamo avuto guardando Mistress America è quella di un autore che ha ingranato la retromarcia. Ma ricapitoliamo, prima di dare giudizi definitivi.
Baumbach ha realizzato negli anni 2000 due dei migliori film indipendenti americani: Il calamaro e la balena, e Il matrimonio di mia sorella. Baumbach era prima di tutto grande sceneggiatore e scrittore di personaggi, al punto che i suoi film sembravano essere suscettibili in ritmo e tono agli stessi moti d’animo dei suoi protagonisti: mai caricaturali, mai “simboli” di qualche classe sociale o generazione, ma mutevoli, liberi da schematismi, lacerati da invidie e rancori, spesso anche morbosamente tormentati da pulsioni soffocate, sempre e comunque in contrasto con loro stessi (lo vediamo nel conflitto perenne tra gesto e parola, pensiero e azione che è marchio di fabbrica del regista newyorkese), talvolta sgradevoli, eppure così concreti da non riuscire mai a distogliere lo sguardo. Vogliamo parlare dello stile? Un affastellarsi ricchissimo di dettagli significativi, percorsi spesso da una sottile ambiguità, alcuni dei quali veri e propri segni inquietanti (i misteriosi vicini di casa in Il matrimonio di mia sorella, lo strano animale morto in piscina in Greenberg). E cosa dire di quel citazionismo così ingegnoso? Abbiamo (avevamo?) un regista che non copiava i modelli, non li “rifaceva”, che distillava la carica espressiva dei modelli (avendo una conoscenza eccezionale della grammatica dell’inquadratura dei classici europei – Bergman su tutti) per trapiantarla nel suo cinema, pur rimanendo profondamente ancorato a una propria peculiare firma stilistica. Riusciva a creare quindi qualcosa di nuovo e imprevedibile di scena in scena.
Poi gli anni 2010: la complessa rete di sfumature tipiche dei suoi personaggi si sposta dal gruppo all’individuo, facendosi ancora più profonda e oscura nel magnifico dramma-travestito da commedia- Greenberg, ritratto di uno sbandato egomaniaco incapace di diventare adulto, forse uno dei personaggi più tristi e angoscianti mai visti al cinema negli ultimi anni, reso ancora più ambiguo dal fatto di essere interpretato da un attore noto per la commedia, Ben Stiller. Vogliamo parlare del modo in cui Baumbach sfruttava gli spazi di Greenberg? La periferia americana, le strade lunghe, assolate e vuote, le case tutte uguali, i party noiosi, costituivano la scenografia perfetta di giornate che si ripetono tutte uguali all’infinito.
Una relazione sentimentale con Greta Gerwig si conclude dopo Greenberg ma dà inizio a una collaborazione professionale solidissima; è il momento di Frances Ha, un altro film stracolmo di citazioni e dettagli, in cui il regista pesca a piene mani nella Nouvelle Vague, traendone però la pura componente estetica, e filtrando tutto il resto. Un’altra dimostrazione di come Baumbach fosse ancora capace di svelare la complessità dei sentimenti, rendendo, attraverso la quotidianità di una giovane aspirante ballerina che prova a mantenersi e realizzarsi a New York, un senso complessivo di inadeguatezza umana e generazionale. E poi, vogliamo parlare di come Baumbach usava le musiche in Frances Ha? Mai come commento alle immagini, sempre come elemento descrittivo sullo stesso piano dell’immagine (la gioia di Frances che corre e balla in strada sulle note di Modern Love di David Bowie).
Poi Giovani si Diventa. I temi restano quelli cari al regista (il conflitto generazionale, il senso di inadeguatezza), ma qualcosa si rompe. Tutto rientra in schemi più rigidi da commedia convenzionale; i personaggi non cambiano mai, tutto sembra essere pianificato in partenza, il ritratto generazionale sembra studiato a tavolino; a discapito dell’imprevedibilità, c’è persino la classica spiegazione pedante da commedia hollywoodiana verso la fine del film. Ma dicevamo, un anno fa: potrebbe essere il passo falso di un regista che vuol giocare con la commedia, nella quale Baumbach è evidentemente sprecato.
Mistress America conferma gli ultimi timori. Ciò che si è spezzato sembra essersi perso definitivamente. Purtoppo non c’è un grammo del Baumbach che conoscevamo in Mistress America: c’è invece la confezione patinata, la battutina pronta, l’assenza di spessore. Con questo non diciamo che il film non è intelligente: sì, Baumbach ci parla dei social, del circolo vizioso che nutre il narcisismo; di agende piene per paura di perdere l’ultima tendenza; della comunicazione ridotta a tweet ecc. Eppure, non convince affatto come questi temi vengano inseriti meccanicamente nella storia. Come in Giovani si diventa, la scrittura sovrasta i personaggi, che non vivono più di vita propria. Tutto suggerisce un cambiamento di rotta radicale: mentre prima i contenuti non erano centrali quanto i suoi personaggi, al punto che essi contribuivano a far cambiare direzione ai ritmi e ai toni dei film, ora la necessità di esprimere un contenuto (ancora l’ansia del nuovo, l’arroganza, il narcisismo delle nuove generazioni) impone una traiettoria rigida a personaggi che nascono già prefabbricati. Tutto viene predisposto a farsi satira, non c’è più respiro.
Dispiace anche costatare che lo stile risulta ormai sottoposto alle imposizioni e ai ritmi della commedia: verso metà del film, la prima parte (migliore), composta da un montaggio spezzato con piccole scene di camminate e spezzoni di dialoghi tra le due protagoniste (ricordando l’ariosa indeterminatezza di Frances Ha), cede il passo a una bizzarra gita in cui tutti i personaggi vengono stipati in macchina: ne viene fuori un momento farsesco, da peggior sundance movie, che mai ci saremmo aspettati di vedere in un film di Noah Baumbach.
Ognuno che dice la sua battuta ad effetto, ognuno che sottolinea, urla, insiste la propria personalità in chiassosa contrapposizione con gli altri. Va anche peggio nella scena successiva, che dovrebbe essere quella in cui tutti i nodi dovrebbero venire al pettine. Questa scena dovrebbe richiamare la commedia classica Hollywoodiana (Screwball Comedy) ma di fatto si risolve in una rappresentazione completamente irrealistica, macchiettistica di personaggi che si aggrediscono con uscite che più finte di così non potrebbero essere. E’ chiaro che Baumbach abbia voluto rendere omaggio ad autori classici della commedia americana (che sicuramente ben conosce), è solo che non c’è riuscito, o almeno, non ha funzionato.
Invece di arricchirsi di nuove sfumature, il cinema di Baumbach sembra oggi essere più arido che mai, tanto si è ridotto, per contenuto e stile, al punto da sfiorare la banalità.
Stefano