Noah Baumbach: Frances Ha
NOAH BAUMBACH
Frances Ha
(Usa 2013, 86 min., b/n, commedia)
Nelle mani di un regista qualsiasi, la storia di una ragazza di 27 anni che cerca di farsi strada nella vita nonostante un susseguirsi di insuccessi poteva risolversi nell’ennesimo ritratto generazionale, ma nelle mani di Noah Baumbach diventa ben più di questo: un prezioso pezzo di cinema. Greta Gerwig, musa del cinema indie americano, seduce e ispira il regista newyorkese, che ne resta incantato al punto da costruirle attorno un film che sembra fatto a sua immagine e somiglianza; citando la Nouvelle Vague e l’Allen di Manhattan, attinge liberamente al grande cinema del passato, al fine di praticare non un’operazione feticistica o di rispolvero, ma un richiamo, un’evocazione che possa rimanere impressa in virtù del proprio essere mito cinematografico: e cosa c’è di più mitico, al cinema, del bianco e nero e della grammatica della nouvelle vague? Ma andiamo con ordine.
La Meryl Streep del Mumblecore
E’ già stata chiamata “la Meryl Streep del Mumblecore”, a testimoniare come a 31 anni l’attrice sia già icona non solo del genere low-budget ma per esteso di tutto il contesto alternativo americano (cinema, ma anche teatro, musica); Con il personaggio di Frances, Greta Gerwig dà corpo all’ultimo tassello del campionario umano di Noah Baumbach, dopo Jesse Eisemberg (Il Calamaro e la Balena), Nicole Kidman (Il Matrimonio di mia Sorella) e Ben Stiller (Lo Stravagante Mondo di Greenberg). In relazione a quest’ultimo (ricordiamo che il sodalizio tra Gerwig e il regista è iniziato proprio in Greenberg) Frances è complementare e specularmente opposta. Complementare per la sua impossibilità di adeguarsi alle regole della società (è goffa, parla nel momento sbagliato, quelli che la circondano – a parte pochi – provano una malcelata pena per lei, ed è soprattutto “undateable”: infidanzabile), per il suo rifiutarsi di crescere (tutti cambiano, fanno carriera, si trasferiscono: tranne lei, che dedica ogni sforzo a far rimanere le cose come sono – alla sua portata: l’amica Sophie), e soprattutto per il suo vivere in un mondo di fantasia (la speranza di fare la ballerina quando tutto intorno a lei sembra frapporla dal suo sogno). Al contrario di Greenberg, che non aveva avversari se non sè stesso, e che alle delusioni reagiva con un sempre più claustrofobico, tragico, rinchiudersi nelle proprie manie e ossessioni, Frances reagisce al mondo in maniera opposta, aprendosi verso le avversità, adottando la sfortuna a mezzo necessario per raggiungere l’obiettivo, cioè una forma (tutta sua) di realizzazione; Realizzazione sospirata e forse raggiunta infine attraverso quell’immagine del proprio nome, tagliato, nella casella postale. Merito di aver portato sullo schermo una figura così affascinante è proprio della Gerwig, non solo per la nonchalance dell’interpretazione, ma per la scrittura: Frances si nutre della Gerwig e viceversa proprio perchè il suo modo di porsi deriva, a monte della performance, dalla stessa penna dell’attrice che ha firmato la sceneggiatura insieme al regista.
Nouvelle Vague rimessa a nuovo
Ancora una volta Baumbach si conferma appassionato osservatore e narratore di personaggi colti in un momento di massima vulnerabilità, nel momento in cui il senso di chi sono o cosa fanno si trova a un punto di svolta: cambiare o restare gli stessi; divisi tra quello che sono o quello che potrebbero, o avrebbero potuto, essere. Pur essendo costituito da capitoli distinti (introdotti da indirizzi con tanto di codice postale – a prefigurare quel meraviglioso finale di cui sopra), e diviso da frequenti ellissi, lo svolgimento non perde mai la strada tracciata in contrasto con l’imprevedibilità della sua protagonista. Ciò che ci affascina è proprio questa tensione che viene a crearsi tra struttura (delineata e precisa, quasi rigida) e spontaneità (la leggerezza, l’imprevedibilità e il movimento caotico, precario di Frances), grazie all’abilità che Baumbach dimostra nel cogliere l’intera gamma di stati d’animo della Gerwig, persona e personaggio, costruendoci attorno un’impalcatura cinematografica di vellutata, discreta eleganza. Trattandosi di un film completamente imperniato sulla descrizione di una persona, al punto che i personaggi che circondano Frances sembrano quasi un contorno, Baumbach ha pensato bene di attingere alla Nouvelle Vague (corrente/genere che così bene si è prestato alle descrizioni psicologiche) non solo le tematiche, ma i meccanismi e l’estetica. Si potrebbe dire che della Nouvelle Vague la pellicola distilla la grammatica eliminandone gli aspetti più negativi (una Nouvelle Vague ammorbidita, senza la spocchia che spesso contraddistingue il genere). Il bianco e nero, ovvio, è un richiamo che ad alcuni può sembrare solo un effetto un pò snob e retrò; ma ben si presta a richiamare, anzi evocare, le fonti d’ispirazione del regista. A parte la fotografia e la musica (magnifica la colonna sonora, ancor più magnifico l’accordo con le immagini: che dire della parte girata a Parigi?), ciò che colpisce più è il modo in cui vengono assemblati i piccoli aspetti della vita di Frances: “situazioni” di pochi secondi
montate in modo da richiamare, più che descrivere, la sua insicurezza, oltre che la sua tenerezza; “situazioni” che non si trovano nel film per avere un seguito o per essere approfondite, ma solo per aggiungere un tassello in più alla personalità della sua protagonista. Se la fotografia quindi ha un valore evocativo, il montaggio ha un valore squisitamente descrittivo, ancor più di quello strutturale. E’ in questi piccoli dettagli, più ancora che nelle scene madri, che cogliamo il vero spirito della pellicola.
Frances Ha ci piace perchè non ha enormi ambizioni; ci piace perchè ha anche consapevolezza dei propri limiti; ci piace perchè ha un lieto fine ma soprattutto nessun pistolotto retorico sulle crisi generazionali; ci piace per quelle piccole situazioni così ben cesellate: situazioni che danno una parvenza di felicità a Frances Ha, e a quelli che andranno (speriamo) a vedere questo delizioso, splendido film.
Stefano