Todd Haynes: Carol
TODD HAYNES
Carol
(Usa 2015, 118 min., col., drammatico)
Ha scritto il critico Pietro Bianchi, in un vecchio libro che custodisco gelosamente, che un’opera cinematografica è “classica” quando ci fa sembrare nuova qualche antica passione in quel dominio del cuore che sembrava da lungo tempo conosciuto ed esplorato in ogni parte; e quando è dotata di uno stile personale ma facile, che sembri antico ma che sia modernissimo, le cui eventuali novità tecniche siano facilmente accessibili a tutti. Il film di Todd Haynes rientra a pieno titolo nella categoria, ed è un esempio di nuovo cinema “classico” oltre che di continuità artistica. In Carol Haynes porta infatti avanti un discorso intrapreso di film in film per delinearlo sotto molteplici punti di vista. Quel che gli importa maggiormente è la condizione di individui incastrati in norme sociali: quella della casalinga di Safe, o dei coniugi di Lontano dal Paradiso, del Bob Dylan riluttante agli schemi precostruiti di Io Non Sono Qui, o delle tensioni familiari insite in Mildred Pierce.
In ogni film Haynes prende in prestito un soggetto classico che si presterebbe naturalmente al melodramma, con l’intenzione però di sezionarlo, agendo in sottrazione, e mettendo in rilievo gli spazi tra i momenti salienti (le “scene madre” che siamo abituati a vedere nei vecchi classici di Hollywood) del classico melodramma, piuttosto che i momenti salienti stessi.
Non sorprende che il risultato sia un film di raffinatezza discreta, di elegante moderazione, di implosione piuttosto che di esplosione. Da un regista affascinato dall’atto di osservare, quale è Todd Haynes, non sorprende che un film inizi con una sequenza costruita ad arte fatta di gesti e sguardi tra le protagoniste. Si parla spesso dell’importanza del gesto rispetto alla parola nel cinema, ma qui siamo arrivati a una vera e propria disseminazione di segni (una mano, possessiva, appoggiata su una spalla; un dito che si sposta ad agganciare il telefono ecc.). Il gesto non è solo simbolico, ma è connessione di montaggio per Haynes: I primi 5 minuti del film sono un susseguirsi di immagini che rivedremo più avanti nel corso del film, come un flusso di coscienza innescato da un gesto (il tocco sulla propria spalla), che funge anche da raccordo delle immagini. Se non è cinema questo, ditemi cos’è.
Difficile, nel film di Haynes, stabilire quale sia la vera protagonista, il vero motore della pellicola. Quello di Carol è ovviamente il personaggio più studiato: predatrice ma in modo giocoso, impeccabile ed impellicciata ma mai snob, voce profonda e sguardo acuto. Carol rievoca Greta Garbo, seduce come una sirena sia Therese che la macchina da presa. La sua è una opacità che è il contrario della trasparenza innocente di Therese: Anche se Carol è il personaggio più stratificato, e gran parte della pellicola è dedicata a rappresentare quella elite americana bianca e conservatrice, a quelli cioè che hanno tutto da perdere, è fondamentalmente di Therese che parla il film, cioè di quell’America che ha ancora tutto da guadagnare. Una Rooney Mara eccezionale, che modifica la sua postura nel corso del film, da uno stato di passività (“a malapena so cosa ordinerare a pranzo”) a una presa di coscienza di sè raggiunta (non a caso) attraverso la macchina fotografica e fortificata dall’amore e dalla sofferenza. Il mondo maschile sembra, al contrario, rappresentare un costante elemento di cospirazione (il marito e gli avvocati di Carol) e di intrusione (il detective/spia che segue le donne) ripetutamente volto ad “interrompere” l’unione immorale delle due amanti.
L’assunto è inattaccabile: Carol è un film tecnicamente perfetto, forse troppo perfetto (nel senso di troppo intellettuale, troppo ricercato: al pubblico arriva la storia, ma la storia è solo la punta dell’iceberg di questo film fin troppo ricco di richiami cinefili) in ogni sua componente, specialmente fotografica: rimandiamo allo splendido articolo di Michele Faggi, che approfondisce l’estetica del film come omaggio ed evocazione della fotografia della “scuola di New York”. Non solo la fotografia, ma l’intero comparto tecnico pare finalizzato a ricreare ossessivamente un’estetica ancorata all’immaginario degli anni ’50, calibrata con equilibrio tale da risultare puramente evocativa, e mai nostalgica. Cosa intendiamo per “ricreare ossessivamente”? Intendiamo ogni singolo fotogramma: Non molti, non la maggior parte, ma ogni singolo fotogramma di questa pellicola girata con una cinepresa Super 16 mm è attentamente composto per rendere omaggio al cinema degli anni ’50, intriso però di un’ambiguità consapevolmente contemporanea.
E’ inoltre interessante notare come, mentre in Lontano dal Paradiso (film che si può tranquillamente accostare come precursore del presente) a dominare era il Technicolor, che caricava, uniformava e “plastificava” l’immagine, in Carol la novità tecnica risiede in un uso più sobrio a articolato della fotografia, in cui la tavolozza dei colori è sommessa, e in cui l’effetto risultante, con la complicità di un uso massiccio del fuori fuoco, è più da “acquarello” (si vedano le strade, le auto perennemente umide, di una New York che a tratti sembra di poter toccare).
Per quanto riguarda la messa in quadro, come molti hanno notato, buona parte della tensione emotiva deriva dalla scelta di riprendere le protagoniste dietro a delle barriere, che siano porte, finestre opache, vetri appannati. Mai come in Carol Haynes era riuscito a ricreare quella sensazione di isolamento, di “ingabbiamento sociale” con così avanzata perizia tecnica.
La colonna sonora, che ricorda vagamente le composizioni per film di Philip Glass, accompagna le immagini senza mai sovrapporvisi, creando un continuum di estrema raffinatezza. Come la musica, tutto in questo film è risolutamente al servizio della storia d’amore, inebriante, tra Carol e Therese, dalla quale Haynes riesce, sì, a tirar fuori il massimo stilistico: non si tratta di fare un film per raccontare una storia d’amore, ma raccontare una storia d’amore per raggiungere un'”oltre”, che è il massimo piacere cinematografico. Piacere sublimato in una scena finale, dove le due protagoniste creano un muto e glorioso finale spezzato e da groppo in gola. Sì, il Cinema risiede da queste parti.
Stefano