Christian Petzold: Il segreto del suo volto
CHRISTIAN PETZOLD
Il segreto del suo volto
(Phoenix. Germania 2014, 98 min., col., drammatico)
Per il recensore scrivere di Il Segreto del suo volto (lo chiameremo col suo titolo più indicativo, Phoenix) è un vero piacere: questo è cinema al suo grado più ineffabile e sostanzioso, problematico e ricco di rimandi e associazioni. La sensazione, durante e dopo la visione, è quella di un film che si apre lentamente, che dipana la nebbia senza mai davvero svelarsi, tanto più arduo da ricostruire quanto più pregnante di significato, poiché congegnato attraverso un groviglio di sfumature e citazioni, con l’intento preciso di raggiungere la massima espressività “a scoppio ritardato”.
Così come il bellissimo La Scelta di Barbara, l’ultimo film di Petzold scava nelle macerie della Storia. Il passato della Germania continua a tormentare il maggiore esponente del nuovo cinema tedesco. Dalla DDR fa un passo indietro per confrontarsi con la più grande vergogna del suo paese: l’Olocausto. E comincia nel segno del noir: siamo nella Berlino del dopoguerra ancora occupata dalle forze angloamericane, c’è un’auto nel buio, musica jazz e una donna avvolta da una benda medica. Questa è Nelly (la sempre meravigliosa Nina Hoss), ex cantante ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento, il cui volto è stato distrutto da un colpo di proiettile. Il volto della donna, mai mostrato se non attraverso le altrui reazioni, viene ricostruito, anzi, ricreato in sala operatoria. La guerra è finita, il mondo è cambiato: cambiare volto può dare la possibilità a molti di nascondere il proprio passato. Nelly però non esiste più, non vuole cambiare la sua vita (come invece vuol fare l’amica che l’accudisce, andando a vivere in Palestina in una Nazione nella quale poter vivere tranquilla – come no? -), ma vuole riaverla indietro. Si mette alla ricerca di suo marito Johnny, pianista, che lavora come cameriere in un night, il Phoenix – l’araba fenice – faro al neon di una Berlino che rinasce. Quando finalmente Nelly lo incontra, Johnny non solo non la riconosce, ma la “assume” per riscattare l’eredità della famiglia di Nelly – interamente sterminata -, istruendo la “sconosciuta” (che decide di farsi chiamare Esther – nome di una parente uccisa) a recitare la parte di sua moglie. Lei, stando al gioco, ha modo da una parte di rivivere (e rimodellare) la sua storia, e dall’altra di intuire la vera natura del marito.
In un gioco di paradossi sempre più vertiginosi, Petzold sviluppa un film di hitchcockiana memoria della quale capovolge però la struttura. Phoenix pare astrarsi dalla realtà di minuto in minuto, divenendo sempre meno credibile e contemporaneamente più coinvolgente. Dai campi medi iniziali, chiari e descrittivi, Petzold sembra voler fare del suo film un oggetto sempre più indistinto, facendone smarrire letteralmente la messa a fuoco, e facendo avvicinare la macchina da presa ai volti dei personaggi per sondarne espressioni e intenzioni; costruisce un’atmosfera da film ormai perduto, sorretto da una suspense nella quale l’inganno fa il pari con l’indeterminatezza di identità, e nel quale appare molto difficile ri-costruire gli eventi che lo precedono. Impossibile sbrogliare la matassa: Perchè Johnny non riconosce Nelly dalla voce o dagli occhi? Forse l’ha riconosciuta ma finge di non riconoscerla? Se lo fa, è per tornaconto personale? Fin dall’inizio voleva i suoi soldi, e così l’ha tradita e denunciata? E perchè Nelly continua a interpretare sè stessa? Perchè ha bisogno di una trasformazione per dover diventare…sè stessa?
L’in-credibilità – nell’accezione negativa di mancanza di credibilità – del film è fuori questione, e in qualsiasi altro contesto si sarebbe gridato ad una presa in giro della logica dello spettatore (vedi quanto scritto recentemente per L’Attesa). Ma Petzold in realtà concepisce fin dall’inizio un film ad alto coefficiente simbolico, nel quale l’interesse non è rivolto solo al passato della Germania, ma al fallimento dell’arte (del cinema) in generale a rappresentare l’Olocausto. L’Olocausto, al limite, si può evocarlo con foto, riprese e memorie, ma non è direttamente rappresentabile. C’è però, un espediente: inventare un presente nel quale far finta che niente sia avvenuto: così Johnny non vuole la Nelly sfigurata sopravvissuta al Lager (*), vuole la Nelly in tacchi alti e chignon. Così Nelly/Esther viene costretta a inventare storie sulla sua prigionia da risultare credibile agli amici, storie che (orribile e assurdo) sono reali perchè vissute, ma che per Johnny rimangono (e devono rimanere) solo storie credibili e ben raccontate per un pubblico. La Germania non vuole redimersi, non fa (non ha ancora fatto?) i conti col suo passato. La Germania vuole il Phoenix, il locale nel quale assumere un’altra identità e dimenticare/rinnegare il nazismo, e il film Phoenix mette in scena la Germania che vuole dimenticare il passato come se niente fosse successo.
Così, Petzold fa anche del suo film una vertigine: lo infarcisce di simbolismi (Nelly che si riflette in uno specchio rotto, il doppio dell'”altra” nella scena post-intervento con la compagna di stanza bendata in modo identico) e citazioni (La Donna che Visse due Volte), mette in scena una messa in scena, dandogli un’estetica da noir classico con sobrietà disarmante. La vita diventa un film e così acquisisce senso. Non è un caso che Johnny metta in scena la riunificazione con la moglie – prevedendo con precisione snervante non solo la sua parte, ma quella di tutti i suoi amici – proprio davanti alle rotaie di un treno, che sono un riferimento ai treni nazisti della morte, ma anche ai clichè del noir. Quest’ultima sequenza, insieme alla rivelazione finale (puoi far finta di dimenticare, ma il passato lascia delle tracce), è un doloroso tour de force di sottotesti (il brano Jazz Speak Low) cinematograficamente superbo.
Il genio di Petzold sta da una parte nell’adottare i modelli cinematografici dell’età dell’oro holliwoodiana e dall’altra nello scardinarli e ricomporli. Lavoro di rara sottigliezza, Phoenix dimostra come sia possibile riflettere sull’Olocausto innescando articolate riflessioni che agiscono ben più in profondità, e ben più a lungo di quanto si è fatto finora facendo leva su facili emozioni o sequenze strappalacrime. E soprattutto, ricorda che il film perfetto sull’Olocausto ancora non è stato girato, e probabilmente non lo sarà mai.
* Johnny istruisce Nelly/Esther su come comportarsi al suo fittizio ritorno di fronte agli amici, e le dice: “Loro vogliono vedere tornare Nelly, non una stracciona da un campo di concentramento”
Stefano