Mike Leigh: Turner
MIKE LEIGH
Turner
(UK 2014, 150 min., col., drammatico/biografico)
Di Mike Leigh ci si può sempre fidare: Il suo ultimo Turner è un film splendido. L’autore britannico è uno dei pochi registi che si può senza mezzi termini amare incondizionatamente, un vero maestro, la cui principale virtù risiede nella partecipazione affettiva e intellettuale che dimostra verso ogni storia, ogni personaggio, ogni suo film. Una partecipazione e una compassione nei confronti dell’umanità dei suoi personaggi che fa breccia nello spettatore in maniera meravigliosamente genuina e naturale, senza mai ricorrere a costruzioni, artifici, melodrammi.
Ciò che distingue questo Turner da altre pellicole dedicate ad artisti (si è già visto molto: -svariate volte – Van Gogh, Modigliani, Bacon, Pollock, Vermeer, Frida Kahlo, e altri), è il rifiuto degli stilemi ordinari del biopic a favore di un più articolato “studio di carattere”. Questo approccio favorisce un approfondimento più vasto e profondo, evitando così ogni difetto di semplificazione, per la quale spesso la vita del personaggio viene messa in scena attraverso episodi-chiave e di “svolta”, dall’inizio alla fine del proprio percorso umano e artistico, e nel modo più possibile lineare, allo scopo di essere più comprensibile e soprattutto alla portata di tutti; quasi come se, per essere alla portata di tutti, bisognasse necessariamente operare una semplificazione (alla quale spesso, ripetiamo, corrisponde a una bugia, o meglio a una sottovalutazione dello spettatore). Leigh è così capace di realizzare un ritratto che è sì alla portata di tutti, eppure estremamente ricco e dettagliato. Impresa difficile, soprattutto se consideriamo che William Turner non fu per niente un artista maledetto; non impazzì, nè si tagliò l’orecchio, non ebbe amori travagliati, né fu coinvolto in fantasiosi intrighi politici. Sembrerà banale ma William Turner è il tipico personaggio Leighiano: vive il quotidiano, è pacato, tranquillo (molto British), ma non è mai ordinario, anzi è unico.
In questo ampio (2 ore e mezza), opulento, pregnante ritratto di William Turner nella fase più avanzata della sua carriera, Mike Leigh dipinge il suo soggetto come un artista sui generis piuttosto che come un genio, e soprattutto come uomo sospeso tra tradizione e modernità, affamato dell’uno quanto dell’altra (comica e fenomenale la scena in cui posa con la moglie davanti a un dagherrotipo, primo esemplare di macchina fotografica). Il film non si concentra troppo su come Turner abbia sfidato le convenzioni o come abbia vissuto certi momenti storici, o su come la sua arte sia stata rivoluzionaria. Infatti, la vicenda prende avvio in un momento in cui l’artista è già affermato, preferendo seguire la routine di un artista-artigiano, dalla pennellata fisica e intensa, che sputa sulla vernice della tela per amalgamarla davanti ai raffinati critici della Royal Academy, piuttosto che mostrarne l’ascesa, lo struggling to succed. E’ un film che mette in primo piano lo sguardo del suo protagonista, prima del protagonista stesso: molta attenzione è infatti dedicata al senso della meraviglia nelle opere dell’uomo (si pensi al fascino suscitato dai primi mezzi a vapore), alla luce (Il Sole è Dio, ultime parole sul letto di morte) e ai fenomeni naturali (incredibile quando si fa legare all’albero maestro di una nave per osservare una tempesta di neve, come Ulisse nell’Odissea: il risultato? Questo). Così tanti sono i particolari pittorici che alcune inquadrature sembrano, come era lecito aspettarsi, delle tele: domina chiaramente la fotografia nelle molteplici calde sfumature di giallo. E Turner è certamente un film caldo, “leighiano” certamente, ricchissimo di humour, che emerge soprattutto nel chiacchiericcio fazioso dell’alta società, in cui anche la più semplice domanda diventa occasione per sfoggiare bon ton ed impostazione esagerata (fantastica “Preferite pasticcio di manzo o di maiale?” “Non posso risponderle con l’adeguata precisione che la domanda meriterebbe”); ma Turner ha anche tinte scure e malinconiche, agrodolci; soprattutto è un film che comunica profonda tenerezza.
Su questo sito di solito non dedichiamo molta attenzione alle performance attoriali, ma nel caso di Timothy Spall non si può evitare di fare un eccezione. E’ infatti interessante notare come gli interpreti di Leigh non solo siano perfetti all’interno dei suoi film, ma sembrino nati per la parte che ricoprono in essi; la Sally Hawkins di Happy Go Lucky, la Imelda Staunton di Il Segreto di Vera Drake, o i protagonisti di Another Year, solo per nominare i più recenti. Ma accidenti, Timothy Spall realizza qui qualcosa di magnifico. Incarna un uomo che dipinge per vivere anche se famoso, per niente interessato alla vita mondana, un uomo burbero e solitario, sotto sotto tenero, ma non ingenuo, né santo, autoironico, spiritoso se preso nel momento giusto, un uomo soprattutto curioso, amante dei viaggi e delle passeggiate. Riesce a commuovere nei momenti più bui, quelli in cui il protagonista cerca di nascondere il suo dolore di fronte ai conoscenti ma non di fronte allo spettatore: in una scena toccante, apprende la notizia della morte dell’unica figlia, ed esibisce un ostinato autocontrollo e apparente indifferenza che scatena le critiche dei parenti, ma Timothy Spall è ripreso di spalle, e noi – spettatori – possiamo così vedere le sue mani dietro la schiena in movimenti compulsivi, colte ad esprimere un orrore indicibile; i personaggi nel film non lo conoscono, ma noi sì. Si ha la sensazione che Leigh abbia voluto prendere come riferimento la figura di Turner per meditare sull’artista che invecchia, pur inventando tenacemente cose nuove: è proprio alla fine della sua carriera che il pittore viene schernito per “il trambusto giallo e sporco” della sue ultime tele, quando invece già anticipava l’impressionismo che sarebbe venuto dopo di lui. Un film meravigliosamente realizzato e sentito, che ha molto a che fare con il suo autore e con una idea, una visione della vecchiaia: (auto)Ritratto dell’Artista da…anziano.
Stefano