Joe Carnahan: The Grey
JOE CARNAHAN
The Grey
(USA 2012, 117 min., col., thriller/drammatico)
Agli sgoccioli di quest’anno, tra incursioni nella Terra di Mezzo e post-cinepanettoni, preferiamo la terza via: abbiamo guardato The Grey per cercare un pò di sana evasione, e abbiamo scoperto con piacere che è molto più di un film-anestetico natalizio. Tutt’altro, è ufficialmente consigliato: The Grey è LA pellicola da tenere in considerazione in questo periodo.
Un gruppo di operai lavora in Alaska. L’aereo su cui viaggiano cade in mezzo alle foreste e devono quindi cominciare a cavarsela contro il freddo e i lupi. Questi uomini sono scarti (“Ex detenuti o teste di cazzo, sono uomini inadatti al genere umano” dice il protagonista cacciatore) e nessuno li cercherà; valgono meno del loro stipendio. Chi conosce questo genere di film sa che gli operai moriranno uno a uno in maniere originalmente diverse, guidati da un capo (Liam Neeson) che sembra conoscere bene l’ambiente ostile e la strada verso la salvezza. Attenzione, ho detto: sembra.
Quel che sembra dalla campagna pubblicitaria un innocuo film d’azione testosteronico, è in realtà uno sguardo metaforico sull’abisso della natura e sull’abisso dell’uomo, abissi che si fanno tutt’uno nel desolato paesaggio artico dell’Alaska. The Grey non è una classica avventura sull’uomo contro la natura, sull’ingegno che batte la forza fisica, non è una passeggiata di retorica edificante: è invece rude e viscerale, durissimo, è la natura che annichilisce, che premia il forte e soffoca il debole, è il gelo che non lascia tregua, è la frana che fa precipitare, è il corpo che si deteriora, è il fiume che annega.
Il regista Joe Carnahan (che ha diretto film tutt’altro che memorabili: Smokin’Aces ed A-Team) invece che affibbiarci scene d’azione super-cinetiche preferisce aprire a sequenze che vanno dalla sospensione onirica (le splendide inquadrature delle persone amate, con le quali i martoriati protagonisti si ricongiungono alla fine) alla dilatazione temporale: in una scena, il più bastardo del gruppo (avete presente quando ci diciamo “ma quando muore questo? non lo si può sopportare!”), quello che ci aspettiamo (ci auguriamo?) faccia la fine più dolorosa, decide di lasciarsi morire così, serenamente, seduto a guardare un panorama; scopriamo la sua vera natura che avevamo intuito per alcuni piccoli elementi, ma volevamo non vedere; ed è una scena lunghissima, affascinante, la scena che non ti aspetteresti in un film così. Ci sono i singoli individui con il loro bagaglio di paure e peccati, ma anche le speranze e le persone care, così lontane; e c’è il gruppo, con le sue dinamiche di attrazione e repulsione, l’imbarbarimento ma anche l’impulso di solidarietà. Non bisogna essere dei grandi osservatori per capire che questi lupi così irreali (sono mostruosi, giganteschi e imbattibili, e poi appaiono dal nulla, come fantasmi) rappresentano la morte incarnando i demoni dei protagonisti, che a un certo punto si comportano proprio come un branco. Avrete capito che dietro a un film apparentemente semplice e stilizzato si nasconde qualcosa di molto ambizioso, qualcosa fatto di attesa più che di dinamismo; mi sento di dire che è un film così atipico nel suo genere da essere fatto più di spazi tra le scene che di scene in sè. E comunque, al di là di queste considerazioni ardite, pochi film hanno un così bel gioco di gesti e psicologia, e una progressione così appassionante.
Vivere e morire in questo giorno, i versi del padre del protagonista, vengono infine capiti e accettati solo nel confronto finale, a cui non ci è data la possibilità di assistere, e ciò è esplicativo: non importa chi vince, importa solo combattere, e il nemico non è il lupo, ma la paura dell’ignoto.
Stefano Uboldi