Matteo Garrone: Reality

MATTEO GARRONE

Reality

(Italia 2012, 115 min., col., commedia(?))

Il luogo, Napoli e i suoi palazzi diroccati, i piccoli mercati di piazza; l’ambiente, un ceto popolare mediocre, ultrakitsch, devoto al piccolo schermo e ai suoi fantocci; un protagonista, Luciano, che è la diretta emanazione di questa distorta fetta sociale, ingenuo padre amorevole che cerca di affermare la propria identità, prima innocuamente attraverso piccole esibizioni e poi patologicamente attraverso una morbosa ossessione per il Grande Fratello.

Ogni tentativo di fuga da questa realtà distopica è impossibile. Il reality televisivo è solo la punta dell’iceberg: al di sotto stanno famiglia e religione, meccanismi sociali che nel film stritolano, soffocano ogni tentativo di affermazione individuale. Il protagonista è come un animale messo all’angolo da questi occhi che giudicano, e reagisce, disperato, nel più inaspettato dei modi: abbracciandone la logica contorta. Da normalissimo pescivendolo Luciano si trasforma in una specie di santo francescano, perchè il sistema esige che per emergere bisogna essere attraenti, originali, e in questo caso dediti (fino alla pazzia, al punto di mandare a rotoli matrimonio e finanze) al prossimo. Garrone sottolinea questo senso di costante oppressione usando la mdp come un’occhio che scruta dall’alto (Dio) o dal punto di vista dei familiari (società) o dalle telecamere (media), indugiando a lungo sui volti e sulle espressioni dei suoi attori rigorosamente non professionisti. L’impiego carichissimo di colori unito all’utilizzo di una musica sognante non fanno che accentuare la sensazione di straniamento, di progressivo allontanamento dalla sanità mentale, fino all’ultima, meravigliosa, onirica sequenza in cui ormai il muro che separa realtà e immaginazione è crollato, e non resta che ridere istericamente.

La chimera del successo, la storia di un uomo che fugge dalla realtà per entrare in una realtà fantastica costruita sulle facili promesse dell’immaginario televisivo; se si trattasse solo di questo, sorgerebbe il dubbio che il Grand Prix dell’ultimo Festival di Cannes sia stato dato, con ben poca accortezza, al solito filmetto italiano che, seppur con ottima fotografia/interpretazione/regia e balle varie, non fa che sfornare tirate a ripetizione su quando sia malata la nostra società (e così via…). Invece, il film di Garrone, che è troppo intelligente per limitarsi ad una critica sterile dei nostri costumi (così come non banale era pure la fredda analisi chirurgica effettuata tra i gironi infernali delle Vele di Scampia), è, oltre le dichiarazioni d’intenzioni, prodotto più ostico di quello che vorrebbe sembrare, complesso al punto da essere impregnato fino al midollo di filosofia. Il cambiamento di Luciano nel rapportarsi con la realtà, o meglio la completa perdita di contatto con essa, che segue ad una costante sensazione di sentirsi seguito, osservato, e (soprattutto, sottolineo) giudicato, non è che un pretesto per un discorso molto, ma molto più esteso e profondo, che va a toccare precise tematiche religiose: il nostro rapporto con il prossimo come metro di giudizio del Grande Fratello (appunto), Entità Onnipresente (la persecuzione delle “spie” del network) e quindi l’Occhio di Dio. Dunque, riepilogando: Il Grande Fratello (Dio) pretende dal protagonista una storia dal forte appeal (una vita di sacrificio cristiano) e se l’avrà, allora riceverà una telefonata (sarà benedetto) e sarà ricompensato entrando nella casa (in paradiso). Infatti è da prendere in considerazione che Reality ha a che fare con la religione più di quanto ne abbia veramente a che fare il Bellocchio del contemporaneo Bella Addormentata, che affronta chiaramente tematiche ben più profane (e per questo discutibili, problematiche anche se trattate con la consueta classe del grande regista emiliano).

Il paragone Reality-religione è diventata la doppia lettura che molta critica ha avanzato nei confronti di questo film. Pur non associandomi completamente in questa analisi, è onestamente impossibile negare al film uno sguardo altamente metaforico (i continui rimandi a messe, statue della Madonna e Via Crucis) e nemmeno una nota acutamente controversa, ovvero l’influenza degli organi sociali sull’individuo. Ma questa è una polemica che un film bello come questo proprio non si merita, un’ambiguità indirizzata a suggerire domande piuttosto che ad azzardare giudizi.

Quel che importa è che questa ambiguità sia stata canalizzata e controllata in un’opera che, nella sua estrema sincerità, è di straordinaria ricchezza e di una maturità quale il nostro cinema ha raramente raggiunto negli ultimi anni. L’Italia ha un autore su cui contare.

Stefano Uboldi