Andrew Bujalski: Computer Chess


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ANDREW BUJALSKI

Computer Chess

(USA 2013, 92 min., b/n, commedia)


Il regista e il movimento.
Andrew Bujalski è uno dei nomi di punta, nonchè ideatore dell’etichetta, del movimento cinematografico statunitense “Mumblecore”. Il movimento nasce nei primi anni del decennio scorso ed è caratterizzato da una forte componente Do It Yourself: basso budget, attori non professionisti, sceneggiature e dialoghi spiccatamente naturalistici, telecamere digitali o vintage-analogiche. Ora, i registi appartenenti al movimento (che “militano” al suo interno: tra loro si chiamano mumblecorps) si muovono nel contesto dell’indipendente americano ma si sono auto-relegati ai margini di quello che ormai è diventato “il business del più cool”, in particolare dell’ambiente finto-alternativo (alternativo nelle pose, conformista nella sostanza) che gravita attorno al sundance. Senza togliere che questi registi (e i pochi attori professionisti: Si pensi alla ormai onnipresente Greta Gerwig) sono, comunque, degli hipsters all’ennesima potenza, possiamo dire, allo stato attuale (quanto ci metteranno pure loro ad essere inghiottiti dalla macchina?), che il loro percorso è tra i più interessanti del nuovo cinema americano; e questo film, comunque pieno di difetti, lo dimostra.

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Sinossi. California, 1980: all’interno di un hotel diverse squadre di programmatori (non attori ma veri esperti di computer) si sfidano in un torneo che decreterà il computer più intelligente nel gioco degli scacchi. Lo sviluppo sembra semplice inizialmente, ma vengono ad aggiungersi svariati personaggi orbitanti attorno all’evento e una serie di misteri complicano la situazione. Ad esempio, uno dei computer comincia a fare delle mosse erratiche apparentemente finalizzate ad una strategia di suicidio, mentre invece gioca secondo strategie offensive contro un’avversario umano; l’hotel sembra sempre più un labirinto, mentre subentrano ipotesi complottistiche secondo cui il Pentagono stia manovrando l’operazione nell’ombra; il film si fa sempre più fitto di stranezze che culminano in sequenze allucinatorie: in una scena, uno degli schermi del computer esibisce segni di coscienza embrionale (appare un’ecografia sullo schermo per pochi secondi); in un’altra una prostituta nell’hotel rivela dei circuiti tra i capelli.

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L’estetica. Il film è stato girato in bianco e nero con una Sony AVC-3260 Tube-Camera (rimando a questo interessante articolo scritto dallo stesso direttore della fotografia Matthias Grunsky sul suo blog) analogica in formato 4:3. Dunque, la texture dell’immagine è indistinta, la risoluzione è bassa, ogni luce bianca è un flash abbagliante, ogni movimento di macchina necessita alcuni secondi per la messa a fuoco. I titoli di testa e di coda sembrano usciti dai vecchi DOS; la pellicola sembra che possa bruciare da un momento all’altro (alla fine, puntando il sole, la pellicola effettivamente si rovina), e sembra che sia stata tirata fuori da un archivio di vecchi film pieni di polvere; addirittura alcune immagini sono sovrapposte tra loro, o entrano in brevi loop di ripetizione (mentre una voce fuori campo annuncia un errore del computer). Il tutto concorre a produrre una sensazione a metà strada tra un datato filmato istruttivo e  una fiction che si svolge in un’atmosfera tra il sonno e la veglia, facendo apparire il film come sorpassato alla stregua degli archeologici computer che celebra. Eppure l’artificio, rimanendo davanti agli occhi dello spettatore, finisce per rivelare continuamente la sua falsificazione. Niente ha a che vedere, per fare un confronto, con la magnifica impalcatura estetica che sorregge, e nobilita il contemporaneo magnifico No di Larrain, dove la sensazione di artificio è sublimata a favore del contenuto. 

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Ciò detto, veniamo al film. Computer Chess nonostante le premesse si rivela presto un pasticcio di idee poco chiare. L’irrealtà conferita dall’estetica riflette infatti l’irrealtà ontologica del film in sè, perso in una serie di bizzarre trovate ai limiti del surrealismo (dei gatti cominciano ad occupare i corridoi e le stanze, una prostituta appare come un fantasma).  Una cosa sola è chiara: alcuni programmatori sembrano inumani (qui il livello di nerd-ismo o meglio geek-ismo assume connotati preoccupanti) mentre alcune macchine sembrano umane. O meglio: le macchine traducono in mosse di scacchi il comportamento dei loro creatori, in una simbiosi uomo-macchina mai pronunciata ma sottilmente decifrabile. Esempio: il computer dalle mosse suicide è stato programmato da un giovane solitario e depresso; quello caotico da un programmatore che si perde nell’albergo girando per i corridoi cercando di scroccare una camera; quello pienamente in simbiosi con il suo creatore riesce invece a vincere la gara. Ci sono poi due gruppi in parallelo all’evento nell’hotel: uno di “scoperta interiore” e uno di scambisti. I personaggi di questo film hanno chiaramente contribuito a caratterizzare il mondo virtuale di oggi, eppure vengono rappresentati come uomini-macchina i cui circuiti non sono in grado di concepire sè stessi (estranei al gruppo di self-knowledge) o gli altri (uno dei programmatori, di fronte all’offerta di due scambisti, rifiuta: non sa cos’è il sesso, e non lo vuole sapere: è una distrazione della macchina). Il codice del futuro è già stato scritto, prima che questi programmatori cominciassero ad usare la tastiera; Bujalski intraprende la strada dell’astrazione filosofica finendo però per tentare troppo la sorte quando cerca di scoprire chi siamo e da dove veniamo, non come uomini virtuali ma come esseri umani. Ambizioni troppo alte, che si bruciano al sole come Icaro o come la pellicola di questo film.

Stefano